Il folclore non inganni, è uno scudetto poco napoletano proprio come De Laurentiis (Repubblica)

Alla faccia dei pregiudizi sull’incapacità di fare impresa a Napoli. Uno scudetto frutto di programmazione, organizzazione, e che sfugge a tutti i cliché

de laurentiis napoli ordine Garcia

Napoli 16/03/2023 - comitato di ordine e sicurezza pubblica / foto Image nella foto: Aurelio De Laurentiis

Su Repubblica un’analisi che fotografa perfettamente i motivi che hanno portato allo scudetto del Napoli. Lo firma Emilio Marrese. Il titolo è tutto un programma:

Napoli, per lo scudetto non serve la mano di Dio. Il miracolo è nel bilancio

Il carnevale della napoletanità lungamente pregustato e preparato rischia di coprire una nuova verità assordante ed eversiva. Un fatto storico sensazionale senza precedenti che Napoli dovrebbe essere orgogliosa di rivendicare ad alta voce, ben sopra il frastuono della retorica tra petardi, caccavelle e putipù: per la prima volta in quarant’anni di calcio moderno, infatti, vince lo scudetto una società attenta ai conti senza firmare cambiali da bancarotta ma addirittura guadagnandoci almeno una cinquantina di milioni. E senza avere le spalle coperte da un colosso industriale, una multinazionale, un fondo internazionale, un magnate o un mecenate.

Altro che folclore: questo è il primo scudetto in attivo, il primo scudetto “sostenibile” — frutto maturo di programmazione, organizzazione, serietà, lucidità e perseveranza, anche sul campo — in un sistema calcio ormai insostenibile, perennemente sull’orlo del crac. Ed è successo proprio a Napoli, nell’immaginario collettivo capitale dell’improvvisazione e dell’arte di arrangiarsi, alla faccia di tutti gli stereotipi e i pregiudizi sull’incapacità endemica di fare impresa da quelle parti. Dove cantano le cicale, si è imposta la strategia della formica. È uno scudetto adulto nella città bambina. 

Il terzo scudetto del Napoli, a 33 anni dall’ultimo, è radicalmente diverso dai precedenti, diversamente rivoluzionario. Non c’è un Masaniello che solleva il popolo, né il sangue sciolto di San Gennaro. ’O miracolo stavolta è quello del bilancio. Non ha nulla di mistico, scriteriato, geniale, eccezionale come negli anni Ottanta quando il Napoli dovette arruolare il giocatore al tempo più forte del mondo.

È uno scudetto — si può osare? — poco “napoletano”, se intendiamo ovviamente solo l’accezione dispregiativa dell’aggettivo cara ai tanti detrattori della caricatura del partenopeo furbetto, teatrale, cialtrone, passionale, indolente, lavativo, inaffidabile. Ma tanto fantasioso. È uno scudetto che sfugge felicemente alla dittatura di quel luogocomunismo che incatena i napoletani ai soliti cliché, da loro stessi — venditori ambulanti ma anche intellettuali opinion maker — alimentati per rifilare al turista (o al lettore) l’immagine che si aspetta. Così com’è poco napoletano l’intemperante Adl, nel ruolo di impresario mangiafuoco, produttore del kolossal, figura patriarcale più che paterna (come i vari Moratti o Mantovani), senza core anche nel liquidare gli idoli della piazza, refrattario a qualsiasi romanticismo. 

 

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