Ma Aurelio non è Achille

Santo subito, magari beato per avere riscattato il Napoli dal fallimento, ma sindaco no. Sta per cadere su tutti noi una tegola cinematografica. Aurelio va alla guerra? Avanti popolo, sulla suburra, bandiera azzurra trionferà. Candidato alle prossime comunali? Ahi, ahi, paloma. C’eravamo tanto amati per sei anni e forse più, ora Aurelio pensa in grande, […]

Santo subito, magari beato per avere riscattato il Napoli dal fallimento, ma sindaco no. Sta per cadere su tutti noi una tegola cinematografica. Aurelio va alla guerra? Avanti popolo, sulla suburra, bandiera azzurra trionferà. Candidato alle prossime comunali? Ahi, ahi, paloma. C’eravamo tanto amati per sei anni e forse più, ora Aurelio pensa in grande, vuole andare ancor più su, mira dritto alla poltrona di Rosetta Iervolino, fino a ieri lui pensava a Pazzini e a Gilardino. Carramba che sorpresa!
Tornano i ricordi dei tempi del Comandante, sindaco e presidente del Napoli. Piedigrotta azzurra. Era un bell’uomo e veniva dal mare. Abbronzato, peloso, occhi azzurri, con gli occhialini come li avrebbe portati più tardi Elton John e con un naso borbonico su una faccia dove il sole lasciava macchie marrone. Era Achille Lauro, figlio di un padroncino di velieri, nato a Piano di Sorrento nel 1887. Affittando, comprando e noleggiando ogni genere di naviglio, creò una flotta di 29 navi. Era il 1936 e diventa l’armatore Achille Lauro, a 49 anni. Fece soldi con la patria, trasportando soldati su due vascelli nella guerra d’Etiopia. Divenne uno degli uomini più ricchi d’Italia. Mussolini disse: “Quel Lauro sta diventando un pesce troppo grosso”. Lo diventò, grosso assai, dopo la guerra.
Sindaco di Napoli nel 1952, confermato nel 1956, per 2375 giorni a Palazzo San Giacomo. Entrò la prima volta nel Calcio Napoli nel 1936 per grazia contraccambiata. Dal fascismo aveva avuto molte agevolazioni per la flotta e Lauro dovette ubbidire al federale Sansanelli andando in soccorso al Napoli che aveva 800mila lire di debiti.
Da mecenate a presidente del Napoli dal 1936 al 1940 e dal 1952 al 1954. In seguito, padrone dietro le quinte, mettendo un suo uomo alla presidenza, l’industriale conserviero Alfonso Cuomo di Nocera Inferiore, prima di arrendersi all’arrivo di Ferlaino che, liquidandone il credito di 430 milioni, lo escluse dal Napoli. Fu un duello di furbi. Vinse il più giovane.
Il miglior piazzamento del Napoli di Lauro fu il quarto posto, raggiunto nel ’53 e nel ’58. Ma dovette sopportare anche due retrocessioni, nel ’61 e nel ’63. Passeggiava ai bordi del campo, nelle domeniche delle partite, sventolando un fazzoletto bianco che poi annodava ai quattro lati mettendoselo in testa, per proteggersi dal sole o per ripararsi dalla pioggia, seduto in un angolo del campo con i pantaloni tirati al ginocchio.
Gli allenatori di Lauro sono stati Mattea, Payer, Baloncieri, Monzeglio (assunto già da Musollino), Amadei, Frossi, Naldi, Pesaola. Gli acquisti più importanti: Nereo Rocco, Gramaglia, Italo Romagnoli, Arce, Mike, Vinyei, Comaschi, Castelli, Jeppson, Bugatti, Di Giacomo, Vinicio, Del Vecchio, Pivatelli, Gratton, Tacchi, Girardo, Ronzon, Corelli, Pontel, Canè, Humberto Rosa.
Fece epoca l’acquisto di Jeppson per 105 milioni nel 1952.
Affidò i lavori di rifacimento di Piazza Municipio al conte Mario Vaselli, costruttore romano e presidente della Lazio, per farsi dare da lui il brasiliano Vinicio, che il conte aveva opzionato per il club laziale. Primo esempio di conflitto di interessi. Nel ’60-’61 prese Gratton e Pivatelli per vincere lo scudetto e finì in serie B.
Non si sa quanto Lauro capisse di calcio, spesso affidandosi a maneggioni sospetti. Un giorno l’allenatore Eraldo Monzeglio, uno che veniva dall’Italia fascista ed era stato campione del mondo con la nazionale facendo il saluto romano, e poi era stato istruttore di tennis dei figli del Duce, lo cacciò dallo spogliatoio del Vomero dove il Comandante aveva osato entrare fumando una sigaretta. Lauro batté in ritirata. Ammirava Monzeglio “perché aveva la schiena dritta”.
Allo stadio e in consiglio comunale aveva un claque prezzolata che gli gridava: “Cumandà, si’ bello”. Una sua prorompente fedelissima, Nanninella ‘a chiattona, usava gridargli più spudoratamente: “Cumandà, vuie tenite ‘o piscione e non dovete morire mai”. Riceveva gli allenatori di mattino presto sulla terrazza della villa di via Crispi, nudo d’inverno e d’estate, il suo modo di essere salutista, sconvolgendo la vista delle monache di un vicino convento.
In uno dei periodi di crisi della squadra azzurra, assunse lo psicanalista Luigi Ammendola perché scandagliasse gli animi confusi dei giocatori e ne sciogliesse l’intreccio dei piedi. Allo stadio, durante la sua presidenza, si susseguirono incidenti e invasioni di campo. La più memorabile avvenne il 28 aprile 1963, giorno di elezioni, partita Napoli-Modena. Qualcuno disse che la folla fu usata per compromettere gli esiti elettorali del Comandante.
Fino all’ultimo giorno della sua vita, continuò a recarsi nel suo ufficio alla Flotta, un palazzo di dodici piani, tutto vetro, cemento e cartongesso, davanti al porto. Ma dalla poltrona chiodata di pelle blu, nella stanza con le colonne di onice, il mappamondo e un grande arazzo marinaro alle spalle, non dava più ordini a nessuno. Si spense nel 1982 a 95 anni. La Flotta era fallita.
<strong>Mimmo Carratelli</strong>

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