ilNapolista

Romanzo napolista / I cinque rigori, il trionfo di Orson

Sesta puntata del romanzo “Hard Boilin’ Football” di Pasquale Guadagni.

Romanzo napolista / I cinque rigori, il trionfo di Orson

Ma se è la prima volta dopo vent’anni che la squadra non ha impegni estivi, perché diavolo ti alzi così presto per andare al campo? – chiese la mamma ad Orson, che alle cinque e mezzo del mattino stava versando un bicchierino di Ouzo nel latte caldo, con addosso una maglietta cui, a tergo, il ragazzo aveva cucito con della stoffa nera un numero uno e un punto esclamativo. Mamma, – rispose Orson bevendo il latte con avidità – io non sono ancora della squadra e poi i venti anni appena trascorsi non significano niente rispetto ai prossimi venti. Ora devo andare, devo allenarmi.

Sul campo di calcio albeggiava e ovunque, sull’erba e sulle gradinate, c’erano i resti dei bagordi della sera precedente, trombette e stelle filanti, cicche di sigarette, piatti di carta in cui erano stati serviti i dolci che il pasticciere aveva elargito per onorare la festa. A centrocampo c’era perfino il microfono da cui la sera prima Onassis aveva smadonnato contro Niarkos, tra gli applausi compiaciuti di tutto il paese. Orson, attraversando la metà campo, si accorse che dal microfono usciva un ronzio di moscone, si incuriosì e lo raccolse da terra con la mano destra, poi, fischiando dolcemente, si rese conto che la notte prima nessuno si era preso la briga di isolarlo dagli amplificatori. Allora si mise spontaneamente sull’attenti, come se avesse avuto Onassis ad una spanna dal suo naso e con voce forte e scandita disse: “Castano, Orson Castano, primo candidato alla salvaguardia dei gloriosi pali del Football Dinamis”. Orson ripeté quella frase sei o sette volte, come ipnotizzato, poi, iniziando a prenderci gusto, aggiunse, con un tono quasi minaccioso: “Sveglia, amici! Sono Orson Castano e voglio dirvi pubblicamente che per tutta l’estate, mentre gli uomini del Dinamis si sfracelleranno nelle taverne, io sarò qui ogni giorno ad allenarmi, per dimostrare ad Egeiros Onassis che la porta del Dinamis ha bisogno di me come dei pali e della traversa!”.

Nelle abitazioni che sporgevano sul campo da gioco, tutti furono svegliati dalla rassegna d’intenti di Orson che, con l’arroganza dei suoi sedici anni, continuò a parlare di sé e del Dinamis, fin quando non si creò un piccolo subbuglio di gente che si riversava in strada. Visibilmente soddisfatto, ripose il microfono sul prato, andò a prendere dei palloni e si avviò verso un muro alle spalle di una porta. Orson iniziò a scagliare palloni contro il muro, che gli restituiva dei tiri simulati, sui quali interveniva con parate condite da tuffi fumosamente spettacolari, mentre la gente svegliata dal suo proclama prendeva a parlare di quel ragazzo così volitivo. Ma quello lì è il lavativo che ha stroncato la carriera a Tetrakis! – borbottò un vecchio rimbambito in tuta da lavoro, che di football non capiva nulla, ma era sempre stato molto addentro alle questioni del Dinamis, perché la sua cucina si trovava a meno di dieci metri dalle panchine.

In quel mattino di tarda primavera, dopo la sbornia della notte precedente, nessuno in paese aveva voglia di far nulla, e così, per tutta la giornata, la notizia del comizio di Orson corse di bocca in bocca e tutti discutevano animosamente, dividendosi in fazioni opposte. Poco dopo mezzogiorno la segretaria di Onassis, informata a telefono da un’amica, chiamò a sua volta il presidente e dovette insistere molto, prima che la cameriera si decidesse ad andarlo a svegliare. Zora, vuoi essere licenziata o hai voglia di venire nel mio letto? – chiese Onassis con una voce penosa impastata di alcol, dopo che la poverina aveva aspettato oltre dieci minuti all’apparecchio. Presidente, – disse Zora premurosa – quel tale che lei ha appena cacciato come massaggiatore stamane all’alba è andato al campo di gioco con megafoni ed amplificatori, iniziando a dire che il Dinamis non avrà altro portiere al di fuori di lui! Vuole che mandi qualcuno a cacciarlo o che chiami la polizia? No, Zora – rispose Onassis in uno stato ancora confuso – ci vado io. Sul campo del Dinamis la polizia sono io. E riagganciò.

Intanto, già da un paio d’ore, la gente, informata dei proclami di Castano, accorreva al campo. Intorno alle undici, vedendo così tanti spettatori, Orson propose ai presenti di metterlo personalmente alla prova, perché voleva dimostrare le sue qualità in condizioni reali, con una traversa sopra la sua testa e tutto il campo racchiuso negli occhi, come solo un vero portiere lo può vedere. La maggioranza era di vecchi e madri con i bambini in braccio, ma tra i presenti si fece avanti un omino con gli occhiali da miope, che faceva il postino nel raggio di una decina di chilometri. Quel giorno le sue consegne erano rimaste in giacenza davanti all’uscio di casa, perché l’omino seguiva da sempre il Dinamis e quando, facendosi la barba, aveva sentito di Orson, era uscito di casa con mezza faccia ancora insaponata, dicendo alla moglie che questa era un’occasione da non perdere, perché dal campo sportivo venivano notizie più fresche di quelle che avrebbe dovuto consegnare. L’omino si presentò ad Orson, dicendo che da ragazzo, ad Atene, aveva giocato prima punta in una squadra di figli di impiegati del tribunale e si dilungò sulle strategie d’attacco che per un periodo aveva studiato assiduamente, lamentandosi però di non essere mai riuscito a trasmetterle ai compagni di squadra. Orson lo ascoltò con insofferenza, pensando che quell’uomo sulla cinquantina era davvero patetico per come si impegnava a darsi un tono che nessuno gli aveva chiesto. Quando fu soddisfatto, l’omino strinse ancora una volta la mano al portiere dicendo: “Lealtà sempre!”, poi posizionò il pallone sul dischetto del rigore, mentre Orson si avviava tra i pali. Il postino guadagnò una esagerata distanza di almeno quindici metri dal pallone e intanto rimandava a memoria le parole che un giorno gli disse un usciere, padre di un suo compagno di squadra: ‘Ragazzo, le aree di rigore sono come i tribunali: più le affronti a testa bassa e più sarai premiato!’ Un bambino simulò il fischio arbitrale, l’omino caricò a testa bassa lo spazio che lo separava dal pallone, sparò quasi d’esterno un missile terra-aria che, in un solo istante, sorvolò la traversa e il muro dietro la porta, e si schiantò venti metri più in là in un campo seminato, tranciando di netto la testa di uno spaventapasseri. Seguì un penoso brusio e il postino, con la coscia dolorante per il tiro, si fece subito da parte, chiedendosi per quale dannato motivo aveva tenuto a mente per tanti anni le parole di quell’usciere, mentre un gruppo di bambini, vicino alla porta, iniziava a dire che per mettere seriamente alla prova Castano bisognava andare a chiamare gli avanti del Dinamis.

La proposta sembrò a tutti la più sensata e così si organizzarono dei gruppetti per andare a chiamare il numero nove Ydatopoulos, detto Mazzola, e il vecchio Oinodoulos, che la sera prima aveva voluto simboleggiare la fine della sua carriera impregnando di ouzo la maglia numero dieci e bruciandola platealmente in area di rigore. Non se ne parla! Se il presidente vuole Castano, gli darà la numero dodici, perché Arpamidis ha trovato Dio e se ne andrà con quei cani dell’Evangelion, ma io sono un Dinamis e fino a settembre non prenderò a calci un pallone neanche se me lo chiede Onassis in persona! Sono un Dinamis da cinque anni e dopo quattro estati di qualificazioni voglio che ora nessuno mi rompa i coglioni! Il vecchio Mazzola, che a trentadue anni aveva lasciato il quotato Neaniai Faros per andare a chiudere la carriera nel Dinamis, fu talmente chiaro, che nessun ragazzino, nel gruppetto che lo era andato a cercare con tanta ansia, osò riaprire bocca. Con Oinodoulos nella sostanza andò allo stesso modo, perché il vecchio centravanti disse che la sera precedente, dopo aver bruciato la maglia, aveva fatto voto che sarebbe tornato a calpestare l’erba del campo di gioco solo il giorno in cui il Dinamis avesse vinto il campionato o la coppa e a nulla valse che la moglie cercasse di ammorbidirlo, sottolineando che la sera prima era troppo ubriaco per potersi far carico di un voto così impegnativo. I ragazzini tornarono al campo con le cattive notizie proprio mentre arrivava Onassis, accompagnato da Zora e dal primo portiere Aristarkos. Aristarkos fu l’unico giocatore del Dinamis che si degnò di andare al campo, un po’ per paura e un po’ per rispetto di categoria nei confronti di quel ragazzo che era riuscito a rivoltare il paese e scalciava per diventare, nella curiosità generale, il suo più stretto collega. Onassis, ancora stordito dalla sbornia, che anzi stava risalendo per via dell’insopportabile canicola, andò dritto verso Castano, afferrò due lembi della sua maglia nei pugni ed urlò: “Piccolo verme, mi hai rovinato il sonno, ma ormai sono qui e voglio vedere subito che sai fare, così potrò farti scomparire oggi stesso dal mio paese!”. Orson cercò di spiegare che quella mattina era andato al campo solo per allenarsi in santa pace, ma poi, vedendo Onassis tutto sudato che sbraitava, dimenandosi tra i presenti e passandosi affannosamente un fazzoletto sulla fronte, pensò al microfono e si disse che ancora una volta aveva ficcato il naso dove non avrebbe dovuto. Onassis liquidò il caso delle defezioni degli attaccanti dicendo che era impensabile che quelli del Dinamis, appena andati in ferie, dovessero già riprendere a calci la palla solo perché al campo di gioco un mocciosetto recalcitrava per far vedere qualche parata.

Ad un tratto, Aristarkos vide il numero uno e il punto esclamativo sulla maglia di Orson e la prese come una provocazione pubblica e personale. Nessuno ti ha detto che dopo l’uno ci dovevi mettere un due e non un punto esclamativo, sulla tua maglietta? – andò a chiedergli Aristarkos raggiungendo Orson alle spalle e premendo con forza l’indice sulla sua schiena. Certo che sì – si schermì Orson tremando – questo è . . . è solo un gioco che faccio con me stesso, una specie di . . . di stimolo a pensare che un giorno vorrei la tua maglia. Presidente! – urlò Aristarkos – Questo provocatore dice che vuole prendersi il mio posto, guardi che cosa ha cucito sulla maglia! E, voltando Orson di peso, mostrò la sua schiena ad Onassis. E così saresti un portiere col punto esclamativo, eh? Ora lo vedremo subito. – disse minaccioso il presidente – Aristarkos! Tu sei portiere, ma un Dinamis all’occorrenza deve sapersi adattare ad ogni ruolo! Di questa duttilità io sono un esempio vivente e i miei uomini non possono essere da meno! Ti ordino di tirare cinque rigori a questo moccioso e di farlo pentire del giorno in cui mise piede su questo campo! Aristarkos si disse subito pronto, ma prima pretese che il numero uno fosse scucito dalla maglia di Castano e applicato alla sua, visto che la maglia vera ce l’aveva a casa e Onassis non voleva perdere altro tempo. Così, con un punto esclamativo sulle spalle, Orson si posizionò in porta. Il presidente era in tale fibrillazione, che decise di fischiare personalmente i rigori.

In quegli attimi concitati, Aristarkos biasimò il fatto che in migliaia di ore di allenamento non era mai andato a togliersi lo sfizio di viversi un rigore dalla parte del manico e confusamente si ricordò che una volta in un bordello, Kalamata, uscendo da una camera gli aveva detto: “E’ stato meglio di un rigore che si infila nell’esatto centro della porta!” Poi Onassis fischiò, botta centrale e parata in presa di Orson, che non schiodò i piedi di un centimetro. Adesso si tufferà da qualche parte, sicuro – pensò Aristarkos quando fu di nuovo pronto dal dischetto. Fischio, botta centrale, parata in presa. Orson era già convinto che Onassis di lì a pochi minuti lo avrebbe invitato a cena per chiedergli come avesse fatto e pensava già alle fesserie che si sarebbe inventato. In verità Aristarkos, oltre a non sapere nulla della complessa psicologia del centravanti davanti ad un rigore, aveva anche delle pessime gambe legnose e, già prima che assestasse il piede d’appoggio, qualsiasi portierucolo con un po’ di sale in zucca avrebbe capito dove l’avrebbe messa. Se mai un giorno rivedrò Kalamata glielo spiego io che significa infilare nell’esatto centro! – si ringhiò addosso Aristarkos, barcollando sul prato incapace di controllo, per il nervoso che lo percorreva lungo la schiena. Quindi decise di affilare il più possibile gli ultimi tre rigori, ma ormai era fuori di sé e li spedì tutti abbondanti sul fondo, alla destra di Orson, che ebbe anche l’arroganza di fare inutili balzi felini sul palo per dimostrare di esserci.

Spontaneamente si levarono applausi e urla inneggianti a Castano, poi la gente, vedendo che Onassis se ne stava rigido come una statua, tornò al suo posto, e ognuno si limitava a sussurrare qualche commento a chi gli era vicino. Orson, con altrettanta prudenza, rimase tra i pali, con un ghigno di soddisfazione che non riusciva a togliersi dalla faccia, ma evitò con cura di incrociare lo sguardo del presidente. Onassis, sempre più sudato, stava impalato col fischietto in bocca e, masticando amarissimo, capì che sarebbe stato troppo impopolare tornare a insolentire Castano. Aristarkos fingeva indifferenza, anche se per il nervoso continuava ad avere scatti perentori delle braccia e delle gambe, e si avviò fuori dal campo. Il vecchio con la tuta da lavoro, convinto che quel duello tra portieri era stato organizzato per decidere chi sarebbe stato il titolare l’anno venturo, andò a chiedere ad Onassis se quel ragazzo si era meritata la maglia di numero uno. No, ma abbiamo trovato un buon dodici – disse il presidente con una voce insolitamente esausta e lontana, mentre osservava Zora che prendeva per mano Aristarkos e, ricambiata, lo baciava sulle labbra. Poi dopo una lunga pausa aggiunse: “Beh, vedremo”. Fra qualche giorno parto per l’Italia, – disse Aristarkos a Zora – ora ho bisogno di una dannata vacanza.

Qui la puntata precedente

ilnapolista © riproduzione riservata