L’azzurro più forte di sempre? Omar Sivori

Il mio nipotino ha contratto una malattia di famiglia. Ereditaria. La passione per il calcio. E quindi per il Napoli. Mi fa domande in continuazione. Ieri me ne ha posto una difficile: “Tra tutti i giocatori che ha avuto il Napoli quale ti è piaciuto di più?”. Ho risposto d’istinto. E non ho detto “Maradona”. […]

Il mio nipotino ha contratto una malattia di famiglia. Ereditaria. La passione per il calcio. E quindi per il Napoli. Mi fa domande in continuazione. Ieri me ne ha posto una difficile: “Tra tutti i giocatori che ha avuto il Napoli quale ti è piaciuto di più?”. Ho risposto d’istinto. E non ho detto “Maradona”. Come forse tutti si sarebbero aspettato. Mi è venuto in mente un altro nome legato alle emozioni dei miei quindici anni. Correva l’anno 1965. Ebbe difficoltà a scendere dal treno alla stazione di Mergellina. Circa tremila persone erano lì accalcate ad aspettarlo. Era lui, Omar Sivori. Uno dei tre “Angeli dalla faccia sporca” (gli altri due erano Maschio e Angelillo). Arrivava dalla Juve. Un mito come forse mai se ne sono visti. Sia chiaro, il bagno di folla a Mergellina fu una manifestazione spontanea. A quel tempo non si pensava ancora ad organizzare lanci pubblicitari.
Ricordo bene la presentazione di Maradona in un San Paolo in delirio. Quella però fu una cosa preparata. Per certi aspetti artificiale. Quanti avevano mai visto giocare Maradona? Omar Sivori lo conoscevano tutti. Tutti avevano avuto modo di apprezzarne le qualità. I fantastici goal. Le palle appiccicate in testa a John Charles, il gigante buono centrattacco della Juventus. I tunnel “sfotticchiatori”. Straordinario artista del pallone, funambolo geniale. Venne a Napoli dopo aver vinto campionati e coppe in Argentina e con la Juventus. Dopo aver vinto la classifica dei cannonieri e il Pallone d’Oro. Fu un genio del calcio. Con il sinistro era capace di fare tutto. La palla restava “azzeccata” a quel piedino d’oro. Personalità carismatica.
Tra i tanti soprannomi quello che meglio lo rappresentava era Manolete, dal nome del grande torero. Ed in effetti la finta di corpo di Sivori, elegante e irridente, evitava gli avversari con un movimento che ricordava quello del toreador che evita il toro. Un fuoriclasse così – tolto Maradona – non si è mai più visto. Non vinse un mondiale come Maradona. Ma tra l’Italia e l’Argentina guadagnò un numero di campionati e coppe molto superiore a quelli guadagnati dal Pibe de oro.
Personalità fortissima e spigolosa, non amava la disciplina né in campo né fuori. Calzettoni sempre abbassati alle caviglie. Restituiva colpo su colpo le botte che riceveva. Oltre trenta le giornate di squalifica rimediate in carriera. Certamente mal tollerava la grigia atmosfera degli allenamenti. Lontana dalla sua visione del calcio tutto estro e fantasia. Non poteva quindi convivere con la personalità piatta e monotona di un opaco allenatore come Heriberto Herrera. Perciò lasciò la nebbia di Torino per il sole di Napoli. Il triste Herrera per lo scanzonato Petisso. Che come lui amava il calcio per il calcio. Le astute trovate più degli schemi. Il poker, le sigarette, le notti insonni… Altri tempi. Quelli finali del calcio romantico. Quando calciatore si poteva solo nascere. Non diventarlo. Con l’arrivo di Sivori per il Napoli si aprì una stagione fantastica. El Cabezón (altro suo soprannome) insieme a José Altafini fece sognare la città dei tifosi. E forse quel Napoli per motivi “politici” raccolse meno di quanto meritava. Gianni Agnelli, a chi gli chiedeva un’opinione su Omar Sivori, rispondeva: “E’ uno sfizio”. Proprio così, uno straordinario sfizio. E gustato a sedici anni non lo si può dimenticare più. Né si può dimenticare il suo addio a Napoli e all’Italia. In linea con la focosità del suo temperamento. Una “scazzottata” con Salvadore. Sei giornate di squalifica. E se ne tornò in Argentina accompagnato da quel velo di malinconia che ne caratterizzava lo sguardo.
Guido Trombetti

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