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Jacobs: «Volevo diventare archeologo o astronauta, ma non avevo voglia di studiare»

Il CorSera intervista l’uomo più veloce d’Italia: «Mio padre da bambino non lo ricordo, lo odiavo per essere scomparso. Ora ho ribaltato la prospettiva: mi ha dato la vita, muscoli pazzeschi, la velocità» 

Jacobs: «Volevo diventare archeologo o astronauta, ma non avevo voglia di studiare»

Il Corriere della Sera intervista Marcell Jacobs. Giovedì è diventato l’uomo più veloce di Italia: con 9”95 sui 100 metri al meeting di Savona ha strappato il primato italiano a Filippo Tortu, che lo deteneva dal 2018.

Racconta di aver scoperto l’atletica a 10 anni, a Desenzano, sul lago di Garda, dove è cresciuto con la madre bresciana.

«Sono a Desenzano del Garda, corro velocissimo in cortile. Mio nonno Osvaldo sorride: motoretta, ma dove vai? mi chiede. Tutta la famiglia di mamma Viviana faceva motocross, ma lei da subito mi ha detto che non mi avrebbe lasciato andare in moto. Troppo pericoloso. E allora io imitavo gli altri: correvo in giro, simulavo i salti sulla rampa del garage, facevo il matto e i suoni con la bocca. Brrruumm!»

Non ha ricordi del padre, texano, è cresciuto solo con la madre.

«Mio padre, da bambino, non lo ricordo. Dal momento in cui con mamma siamo rientrati da El Paso, è cominciata la nostra personalissima sfida a due. A scuola ero in difficoltà. Disegna la tua famiglia, mi diceva la maestra: io avevo solo mia madre da disegnare e ci soffrivo. Chi è tuo papà, mi chiedevano gli amici da ragazzino: non esiste, rispondevo, so a malapena che porto il suo nome. Per anni ho alzato un muro. E quando mio padre provava a contattarmi, me ne fregavo».

Ad aiutarlo è stata una mental coach, Nicoletta Romanazzi. Solo di recente, a settembre.

«E’ entrata nel mio team insieme all’allenatore Paolo Camossi. Con lei ho accettato di lavorare in profondità sulle mie paure e sui miei fantasmi. Non è stato facile: c’è una parte intima che non vogliamo mostrare nemmeno a noi stessi».

In sei mesi sono migliorate le sue prestazioni ed ha anche riallacciato un rapporto con il padre.

«Non è ancora tutto risolto, però almeno con papà ora comunichiamo. Cioè, io copio e incollo: il traduttore di Google mi dà una mano quando non capisco. Lo so, lo so, dovrei rimettermi a tavolino a rispolverare la grammatica inglese: i termini li conosco, è che per paura di sbagliare mi paralizzo e sto zitto».

Racconta come si sente oggi, che è tornato a parlare con il padre.

«Sbloccato. È incredibile la potenza dell’energia che si muove quando abbatti un muro. Lo odiavo per essere scomparso, ho ribaltato la prospettiva: mi ha dato la vita, muscoli pazzeschi, la velocità. L’ho giudicato senza sapere nulla di lui. Prima se una gara non andava bene davo la colpa agli altri, alla sfortuna, al meteo. Adesso ho capito che i risultati dipendono solo dal lavoro e dall’impegno».

Jacobs non ha sempre sognato di diventare un atleta.

«No, no. Da bambino mi piacevano i fossili: volevo diventare archeologo. In alternativa, astronauta. Però per entrambe le professioni c’era da studiare e io avevo poca voglia di stare sui libri. In terza media sono stato bocciato».

Si è fatto un regalo dopo il 9”95? Gli viene chiesto. Risponde:

«Mi tolgo spesso gli sfizi: non perché me lo merito ma perché lo voglio fare. Mi piacciono le macchine, i vestiti trendy, i locali chic. Amo i tatuaggi, che raccontano la storia della mia vita: la frase sull’amicizia nata da un patto con chi mi conosce da più tempo, le date di nascita dei figli e dei fratelli, la rosa dei venti che è la mia bussola, il Colosseo perché a Roma devo tanto, la tigre che è il mio animale e mi rappresenta».

 

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