Tiziano Ferro: «Provo compassione per gli haters, probabilmente sono persone ferite»
Intervista a Domani: «Del bullismo sono arrivato a liberarmi per sfinimento. Non ce la facevo più. Lì era o morte oppure andate tutti affanculo»

Domani pubblica una lunga intervista a Tiziano Ferro. Originario di Latina, oggi vive in America, a Los Angeles. Racconta il rapporto con la città in cui è nato.
«Da bambino tu conosci quello. Forse è lì l’inizio del dramma: il fatto di pensare che la realtà è solo quella. Che sei una mosca bianca, che ti meriti l’emarginazione perché il mondo va in quella direzione e tu da un’altra. È un po’ come i cani maltrattati dal padrone che comunque lo amano. Perché quella è casa, conoscono lui come padrone. La tua realtà ha quella forma, un po’ te la fai andare bene, un po’ ti affezioni proprio».
Quando poi scopri che c’è altro, dice,
«Scopri che puoi fare tutto, anche il mestiere che ti piace».
Sulla sua infanzia:
«Avevo due genitori molto giovani che lavoravano tutto il giorno. Si facevano il culo per portare a casa il minimo e quindi ero spesso a casa da solo. Mia madre compensava il senso di colpa comprandomi tutto quello che volevo».
Giocava a pallavolo.
«Nella squadra della mia città, dal super minivolley all’under18. Ed era molto strano perché io ero sovrappeso. Però avevo buona tecnica. Ero alzatore. Stavo sempre nella squadra principale, facevamo i campionati e ci posizionavamo bene. Ero alto per la mia età. Poi dai 16 anni in poi non sono cresciuto più. Gli altri sono diventati altissimi. Avevano molta meno tecnica di me però erano alti. E in più io non dimagrivo. Il peso è diventato un problema, la tecnica non compensava. Venivo messo in panchina, non ce l’ho fatta più. Ho abbandonato».
Sul bullismo, di cui Ferro parla spesso, perché lo ha subito sulla sua pelle.
«Io sono arrivato a liberarmi per sfinimento, non perché sono coraggioso. “Ah, che coraggio”, dicono. Ma quale coraggio? Io non ce la facevo più. Lì era o morte – e anche lì mi stavo impegnando discretamente – oppure andate tutti affanculo. Questo sono io. La cosa più agghiacciante è che per me era normale. Le forme sottili di degrado, di violenza, di manipolazione che io ho subito le ritenevo logiche. Perché se tu sei così, ti diranno quelle cose».
Ferro parla degli haters, anche quella una forma di bullismo.
«Mi astengo, osservo e utilizzo l’unico mezzo che ho, che è la compassione. Perché probabilmente sono persone ferite, perché probabilmente non hanno alternative, perché in un mondo nel quale chi scrive bene si deve confrontare con altri che scrivono, scegliere la strada più breve, quella dell’hater col patentino da giornalista, è più prolifico. L’hater lì per lì acchiappa un sacco di click. Su questo li capisco, perché non dev’essere facile fare quel mestiere e farlo distinguendosi. Ma dover scegliere sempre dei contro-argomenti così tossici non può che intossicarti. Poi ho notato che non sanno più parlare bene delle cose. Parlano solo di quello che odiano e si specializzano in un linguaggio, in un registro, disimparandone un altro che nella vita però è sempre utile, con sé stessi e con gli altri. Chiaro che io non sono il loro terapista, però lo noto. Quando poi provano a scrivere per supportare qualcosa, non lo sanno fare, diventano mielosi, banali, triti e ritriti».