Sono passati 11 giorni e il dolore non passa. Non aggiungiamo pure l’ipocrisia dei bambini

Sono passati 11 giorni ma il dolore non passa. Al di là di tutto ciò che è stato scritto, detto, di tutte le ricostruzioni possibili del caso, di tutti i giornali sfogliati e i link aperti in cerca di tracce, al di là delle voci discordanti e violente (sì, violente, nella misura in cui producono […]

Sono passati 11 giorni ma il dolore non passa. Al di là di tutto ciò che è stato scritto, detto, di tutte le ricostruzioni possibili del caso, di tutti i giornali sfogliati e i link aperti in cerca di tracce, al di là delle voci discordanti e violente (sì, violente, nella misura in cui producono fratture e discordanza di fronte al calcio) che dividono la città, il dolore non passa. Il mio dolore di tifosa, intendo, di chi ogni volta che c’è una partita di calcio freme, aspetta, ha l’ansia, il desiderio di vedere come andrà a finire, se davvero il pallone è rotondo oppure no. No. Non è rotondo, questo pallone. Non è più pallone. Certo, è da tempo che il calcio non è più solo pallone, mica me ne accorgo adesso, ma adesso è più forte, forse, la sensazione di solitudine, di impotenza, di impossibilità, da soli, a ristabilire il giusto ordine di cose. Adesso è maggiore l’invidia nel guardare le partite del calcio inglese, i loro stadi, dove le famiglie sono a pochi passi dal campo, dove può capitare che un giocatore venga a stringerti la mano e non c’è pericolo alcuno per le migliaia di bambini presenti, dove allo stadio puoi passare intere giornate di festa, nella celebrazione di quello che, certo, è un rito tribale, ma che è un rito tribale perché siamo stati abituati a pensarlo come avulso da tutto il resto, come un momento di svago, liberazione. Perché ci piacerebbe che fosse così: un’oasi. Non è più così. È un inferno, altro che oasi. Un luogo fatto di odio, di cattiveria, di offese pesanti e di occhi e orecchie che fanno finta che quelle non siano offese. Oggi, questo calcio e questo pallone, generano un senso di oppressione, di pesantezza e, quel che è peggio, di paura. Domenica ho guardato la partita contro la Sampdoria con un senso di lontananza mai provato prima. Mi sono messa a lavare i piatti, rassettare la cucina, leggere, persino. Non avevo voglia, semplicemente, di pensare che quello che era andato in scena il sabato precedente fosse calcio. Di pensare potesse tornare tutto normale. Non mi è più possibile farlo. Per questo vivo la chiusura del San Paolo al pubblico quasi come una liberazione. Non perché ritenga che sia giusta la sanzione, non lo credo affatto, soprattutto perché la punizione inflitta a noi non è inflitta in modo equo, non lo è da anni, lo dimostrano centinaia di provvedimenti del giudice sportivo, non lo dico certo io. Ma perché forse davvero l’unica esigenza che sento, in questo momento, è di fermarmi. “Il calcio italiano andrebbe fermato per un paio d’anni”, ha scritto Max in un commento su Facebook, oggi. Triste, suona come una sconfitta, ma non siamo già tutti sconfitti adesso se ci ritroviamo a parlare di camorra, violenza, ingiustizie, razzismo? È l’amore verso uno sport di cui spesso non si comprende la follia della gioia collettiva che è stato profanato. Per l’ennesima volta, profanato. E allora, forse, il silenzio di uno stadio vuoto davvero ci può far comprendere il limite che si è varcato, la strada da imboccare, quella da scegliere, se non altro. Quella che nessun club sceglierà mai di intraprendere per tutelare la parte pulita e moderata dei suoi tifosi. Perché non sono quelli i tifosi che dettano le condizioni e le leggi, perché non è con quei tifosi puliti che i club stabiliscono connivenze pericolose che con il calcio non hanno nulla a che fare. Perciò no, non mi piacerebbe uno stadio riempito da bambini. Non mi darebbe calore, ma solo una sensazione di freddezza, ipocrisia, di vuoto. Perché a quei bambini dovremmo spiegare qualcosa che forse è diventato tanto più grande di noi, lontanissimo da noi. Dovremmo spiegare loro dov’è che abbiamo permesso che il calcio si trasformasse in quest’orribile baraccone che ha portato la pistola di un fanatico a sparare. A che punto della storia abbiamo tirato i remi in barca e abbiamo consegnato il nostro sport alla violenza. Perché se non glielo spieghiamo, se non lo capiamo noi per primi, non cambierà mai nulla. I club continueranno a far finta di non vedere e i tifosi violenti ad entrare nello stadio e a prevaricare. Io non me la sento. Non sono capace di spiegarlo ai miei figli. Forse, il che è peggio, non riesco a comprenderlo neanche io. Ilaria Puglia

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