Il calcio italiano sta preparando l’ennesima resa agli ultrà

“Mamma, ma perché ce l’hanno tanto con Napoli? Perché dicono che puzziamo?”. A porre la domanda fu, lo scorso anno, una bambina di 11 anni che visse a Roma un mese e mezzo. La scuola cui venne iscritta non era proprio in periferia. Quartiere Prati, piazza Mazzini. All’ingresso e all’uscita si sprecavano le Repubblica e […]

“Mamma, ma perché ce l’hanno tanto con Napoli? Perché dicono che puzziamo?”. A porre la domanda fu, lo scorso anno, una bambina di 11 anni che visse a Roma un mese e mezzo. La scuola cui venne iscritta non era proprio in periferia. Quartiere Prati, piazza Mazzini. All’ingresso e all’uscita si sprecavano le Repubblica e i Fatto quotidiano sottobraccio ai genitori de sinistra. All’interno, nelle aule e nei corridoi, dove il cinismo, la cattiveria e la spietatezza dei piccoli può liberamente esprimersi, il clima era diverso. Per carità, ciascuno se l’è dovuta cavare da solo a scuola. Orecchie a sventola, quattr’occhi, apprezzamenti su madri e sorelle, insinuazioni sugli orientamenti sessuali. Insomma, l’armamentario che ben conosciamo. Con l’aggravante, stavolta, dell’essere napoletano.

Magari tanti napoletani nel quartiere Prati questo problema non l’hanno avuto. Quella bambina sì. E l’episodio mi è tornato in mente stamattina, a proposito della tanto deprecata (dagli ultrà e dai dirigenti del nostro calcio) norma sulla discriminazione territoriale. Le posizioni a questo punto sono piuttosto chiare.

Gli ultrà, forti del clamoroso autogol inscenato dalla curva B che ci ha chiamati colerosi pur di difendere i “colleghi” del resto d’Italia, chiedono libertà di espressione, ribadiscono il loro concetto di stadio come una sorta di zona franca. Insomma, vogliono agire in piena libertà. Lo stadio è cosa loro. Considerano quella degli ultrà una missione. Loro sono innanzitutto ultrà, che poi tifino Verona o Napoli fa poca differenza. E arrivano a minacciare di far giocare l’intero campionato a porte chiuse. (Sai che paura, aggiungo io).

Poi ci sono i dirigenti del nostro calcio, che della questione libertà di pensiero se ne fregano. La loro posizione è un’altra. Da decenni (tranne Lotito e pochissimi altri esempi) non sanno che pesci pigliare con queste persone che spesso tengono in scacco le società. E continuano a offrire loro doni e prebende. Altrimenti i signori, da veri tifosi e da portatori di un’idea rivoluzionaria e non omologabile in questa società ormai piegata al pensiero unico, mettono in atto azioni ritorsive. Quindi i dirigenti del nostro calcio, con Galliani in testa ma nessuno che fin qui si è dissociato, pensano bene di bypassare il problema: la norma sulla discriminazione territoriale va eliminata. Vuoi vedere che mo’ non si può più dire ai napoletani che sono colerosi? E che è?

Non possiamo dimenticare i giornalisti. La gran parte di coloro che scrivono nei grandi giornali sono del Nord e in fondo, in cuor loro, sono d’accordo con quel motivetto. Lo canteranno anche sotto la doccia. Oggi sulla Gazzetta dello sport la signora Alessandra Bocci scrive: “I recidivi tifosi rossoneri hanno intonato a Torino le filastrocche (sigh) offensive su Napoli e il colera e la mannaia (la mannaia???????) è calata sul club. Quello che i sostenitori napoletani avrebbero forse commentato con un sorriso, visto che certi cori se li sono cantati provocatoriamente da soli, gli inviati della procura federale hanno accolto senza ridere affatto”. Questo sulla Gazzetta, eh, mica su Forzamilan.it. Quindi, quella sui colerosi è una filastrocca. E per questo noi dobbiamo ringraziare i fedayn di Napoli, di cui un rappresentante ieri è stato intervistato a Fabrizio Cappella per il Processo del lunedì.

I giornalisti, ancora. Ieri Sky Sport 24 ha ripetuto (ma non è vero) come l’unico coro scandito fosse quello: “Noi non siamo napoletani”, che effettivamente non fa una grinza. Non siamo mica diventati scemi. Anche il Corsera oggi dedica al tema un fondino che si conclude così: “Per quel che riguarda poi la faccenda della discriminazione territoriale – che Adriano Galliani, d’accordo con gli altri presidenti, vorrebbe cambiare – la questione si complica ulteriormente. Anche perché il linguaggio dello stadio non sarà e non potrà mai essere quello di una sala da tè”. Più chiaro di così, si muore.

Il principio liberale, qui perfettamente rappresentato da Vittorio Zambardino, è che un pensiero non può mai essere sanzionato anche se è di un idiota. Una tesi nobile, nobilissima, autenticamente liberale, ma di cui gli attori del sistema calcio si servirebbero esclusivamente per evitare la fatica di modificare il quadro attuale.

Qui il confine tra libertà di espressione e libertà di offendere è piuttosto labile. Ma può andar bene anche così, per carità. Sono decenni che un certo tipo di devianza ha il suo sfogo naturale negli stadi. Comporterebbe troppa fatica deviarne il flusso. Alla fine l’universo calcio piegherà la testa. Teniamoci tutto così, allora, a patto però di non strepitare tra dieci giorni, quando magari quella libertà di pensiero e di espressione avrà leso qualcuno un po’ più influente di noi poveri colerosi.
Massimiliano Gallo

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