Mazzarri l’illuminista e la logica aristotelica: «Se giocassi con le sagome della Playstation, vincerei sempre»
NAPOLI – «Il calcio non è una scienza esatta, ma più si avvicina meglio è». Così dice Mazzarri nel mezzo di una conversazione durata più di due ore e protrattasi, per il piacere di finire il discorso, ben oltre i limiti stabiliti. Scoprirò poi, navigando su Internet, che la prima parte della frase non è […]
NAPOLI – «Il calcio non è una scienza esatta, ma più si avvicina meglio è». Così dice Mazzarri nel mezzo di una conversazione durata più di due ore e protrattasi, per il piacere di finire il discorso, ben oltre i limiti stabiliti. Scoprirò poi, navigando su Internet, che la prima parte della frase non è nuova; è nuova invece la seconda. Ed è l’ennesima conferma che l’uomo è alla continua ricerca della perfezione: in questo caso, della perfezione espressiva.
Maglioncino e pantaloni grigi, dietro una scrivania che ne esalta un imprevisto tono professorale, l’allenatore del Napoli si vanta di aver reinventato molti schemi di gioco e, in modo particolare, la difesa a tre, di cui solo i dottorati del calcio conoscono davvero tutte le implicazioni. E lui lo sa bene, tanto è vero che, ad un certo punto, preso da pedagogico entusiasmo, si fa perfino dare carta e penna dall’intervistatore per spiegarne i segreti tratteggiando numeri, nomi, cerchi e vettori.
Incontro Mazzarri, ed è la prima volta che lo vedo non in tv o dall’alto della tribuna del San Paolo, in un corridoio del centro sportivo di Castelvolturno. L’allenamento è finito da un bel po’. Cannavaro è appena passato in auto, Maggio si attarda a firmare qualche autografo e a posare per una foto con un bambino. Per starci, nella foto, lui che è molto più alto si accovaccia sorridendo, ed è un gesto gentile, che lo rende subito simpatico.
Con Mazzarri ci sistemiamo in uno studiolo anonimo ed essenziale. Spento il telefono, lasciata la sigaretta elettronica che da oltre un mese sostituisce quelle vere e ordinato il caffè per gli ospiti (con me ci sono i colleghi Monica Scozzafava e Gianluca Abate), il mister azzurro arriva anche a considerazioni amare sull’inadeguatezza di certi analisti di calcio che non gli riconoscono i primati tattici; e sull’ipocrisia di certi allenatori che non ammettono di avergli copiato le idee. «A parti rovesciate, io lo farei, perché sarebbe una prova di elasticità strategica» dice alzando le spalle.
Tuttavia, ed è la ragione di questa intervista, l’allenatore di Hamsik, Pandev, Insigne e Cavani dovrebbe vantarsi di ben altro, di qualcosa che agli occhi di chi scrive, e cioè di un cittadino napoletano di lungo corso, vale molto, ma molto di più.
È mia opinione, infatti, che dopo la passione cieca al limite del fanatismo, dopo gli anni del divino Maradona e della delega assoluta a chi passi la palla in campo come il destino nella vita, Mazzarri abbia riportato a Napoli la razionalità del tempo strappato al fatalismo; del tempo vissuto fino all’ultimo istante utile. E sebbene possa apparire assurdo, a rendere così popolare la ragione aristotelica nella città di Galiani e Giannone, Filangieri e Genovesi non è stato un intellettuale di quella nobile tradizione, ma un allenatore di calcio, un «ragioniere», come lo chiamava il suo maestro Renzo Ulivieri. In una Napoli che il luogo comune vuole votata all’individualismo e all’attesa messianica del leader, è stato lui a riaffermare il valore moderno del tempo ritrovato e a preferire la potenza collettiva della squadra all’estro del singolo.
C’è un’immagine che rende bene questa idea del Mazzarri illuminista. È quella che lo vede a bordo campo mentre alza il braccio dell’orologio in direzione dell’arbitro e tamburella con l’indice destro sul quadrante. Chiamare il tempo, chiedere il rispetto del tempo di gioco e reclamare un ragionevole recupero del tempo perso è un implicito messaggio alla squadra e ai tifosi: vuol dire abbiate fiducia, perché nulla è perduto finché si è in campo. Fu così due stagioni fa al San Paolo contro il Milan, quando negli ultimi quattro minuti gli azzurri recuperarono due gol di svantaggio. Ed è stato così tante altre volte, sebbene la lezione l’abbiano poi imparata anche gli avversari e le cose per il Napoli si siano molto complicate: quattro sconfitte di fila prima della vittoria a Siena e la mazzata dei due punti di penalizzazione aggiunta alla squalifica semestrale di Cannavaro.
Il tempo, dunque. Mister, perdoni la curiosità: che orologio è quello su cui si accanisce?
«È un Franck Müller simile a quello che mi regalò il presidente della Reggina, quando per una penalizzazione partimmo da meno quindici, poi diventati meno undici, e riuscimmo a piazzarci al decimo posto. L’ho ricomprato e ora lo indosso prima di ogni partita. Di solito mi porta bene, e sa com’è? Non credo in certi rituali, ma ripeterli non costa nulla».
Non si giustifichi, anche gli illuministi napoletani credevano nell’uomo con la gobba, nello «scartellato», era comunque un modo per mondanizzare il destino, per portarlo dal cielo alla terra. Ma torniamo all’orologio. Perché lo agita così spesso?
«Come è ovvio, chiedo all’arbitro, al quarto uomo, la tutela del tempo. Ma in realtà ricordo ai miei uomini in campo che non voglio vederli rassegnati, che la mia squadra non si arrende mai, anche se è sotto di tre reti, perché è meglio perdere tre a uno che tre a zero. E non le dico quanto mi sono arrabbiato dopo la prima sconfitta con il Bologna».
Il tempo come opportunità e mai come ossessione: per lei è sempre stato così?
«Io non mollo mai. Sono dieci stagioni che non mollo e non ho mai fallito. Ho cominciato con la C2 e ora sono qua».
E domani?
«Prima o poi scrivo quel libro che ho in mente da tanto tempo. Ho tre o quattro cose da dire».
Ne anticipi qualcuna.
«Direttore, dia tempo al tempo».
Mister, faccio mia la sua lezione: non mollo.
( Ride, il ghiaccio è rotto). «Be’, allora posso dirle che dedicherei volentieri un intero capitolo ad Hamsik, è un bravo ragazzo, la sua è una bellissima storia ed è un giocatore straordinario».
Gli perdona tutto, anche la cresta?
«Insomma, il suo punto debole non è quello. E poi gliel’ho vista crescere. Semmai, e nello spogliatoio glielo dico spesso, in campo dovrebbe essere più cattivo. Come Seedorf, per capirci». (Mazzarri insiste su Hamsik anche quando, terminata l’intervista, Abate gli chiede il nome del giocatore ideale per un allenatore, convinto che avrebbe fatto, storicamente parlando, quello di Van Basten).
Mister, quando tempo occorre per fare un gol?
«In teoria, una manciata di secondi: dieci, forse addirittura otto. Un lancio sulla fascia, un colpo di testa al centro e l’incursione dell’attaccante».
E in pratica?
«Non c’è differenza. Per me teoria e prassi devo tendere a coincidere. Il calcio non è una scienza esatta, ma più si avvicina meglio è. Nulla può essere lasciato al caso».
È per questo che rimprovera la squadra anche quando dopo un gol indugia ad esultare? E tutto questo a Napoli, dove l’esultanza è sacra?
«Che dubbio c’è. Dopo un gol, l’avversario è ferito, bisogna approfittarne per chiudere la partita. Chiamatelo pure cinismo, se volete. Ma io amo la tattica, non il tatticismo. In campo si sta per giocare, non per perdere tempo. Lei sa cos’è il tempo di gioco? Io tendo ad ottimizzare il tempo di gioco».
Vale a dire?
«Il tempo di gioco è quello realmente e consapevolmente giocato. In serie B, ad esempio, non è lo stesso della serie A. Le partite durano sempre novanta minuti, ma in serie A si gioca di più, perché il lancio è più potente, lo stop più preciso, la conclusione in rete più rapida. Se il calcio è potente, il pallone viaggia ad una velocità più alta; se lo stop è preciso, basta un solo tocco per ricevere e trattenere la palla. È tutto tempo che si guadagna. Così la tecnica cede tempo alla tattica e accorcia gli spazi in campo. Più tecnica, più tattica. Più tecnica, più velocità. Così la tecnica individuale diventa potenzialità tattica collettiva. E così si può reinventare la difesa a tre, ad esempio. Dia qua carta e penna, gliela mostro».
Si accomodi.
«Vede? Due, Quattro, Sette, Nove: questa è la squadra in campo. Ora, come è stato notato, dopo il fischio di inizio tutte le mie partite cominciano con un passaggio all’indietro. Due riceve, scende sulla fascia destra e lancia a Quattro, che di prima passa al centro, dove ci sono Sette o Nove, Pandev o Cavani. Analogamente, per la “palla incrociata”».
Prego?
«Faccia attenzione. Vede? Due riceve e scende, ma mentre la squadra si dispone come prima, trascinandosi dietro l’avversario, questa volta taglia il campo e lancia su Undici, che sta sul lato opposto, sulla sinistra».
E funziona?
«Con la Reggina ha funzionato alla perfezione. Io gridavo: “Due, Quattro, Sette” e Lanzaro, Vigiani e Amoruso eseguivano: dodici vittorie, cinquantuno punti in classifica, un miracolo».
Dunque lei in campo dà i numeri? Ancora oggi?
(Ride per la seconda volta, non male per uno che passa per antipatico). «Sì, in effetti do i numeri».
E sono quelli delle magliette?
«Ovviamente no, per comodità utilizzo dall’uno all’undici. Sono numeri ideali».
E perché di recente il meccanismo sembra essersi inceppato?
«Perché nel frattempo gli altri hanno capito l’antifona e si sono attrezzati. Nei miei schemi, però, ogni giocatore ha almeno quattro varianti possibili, determinate appunto dalla disposizione in campo dell’avversario».
E ogni variante, che a sua volta immagino ne generi altre, suppongo vada imparata a memoria ed eseguita meccanicamente?
«Naturalmente sì. È per questo che il calcio professionistico implica disciplina, rigore, dedizione assoluta: in campo e fuori. Un buon professionista non può arrivare in ritardo all’allenamento, non può strafare a tavola, non può avere una vita sregolata o un carattere impossibile. Così si perde tempo. E ne ho conosciuti io di campioni che hanno perso tempo!».
Nomi?
«Lasciamo stare, ma uno di questi, avversario in campo, di recente si è avvicinato alla panchina ed è venuto ad abbracciarmi, lo hanno visto tutti. L’ho avuto in squadra anni fa, a stargli dietro rischiavo di impazzire».
Non per difendere Cassano o chi per lui, ma ad esser sinceri si potrebbe impazzire anche a stare dietro a lei e ai suoi numeri, non crede? Per dirla con Totò, sembrerebbe che lei preferisca i caporali agli uomini. O, per dirla invece con il filosofo Masullo, l’Automa all’Anima.
(Ride ancora, ma meno di prima). «Mettiamola così. Se io giocassi con le sagome della Playstation programmate secondo i miei schemi , vincerei di sicuro tutte le partite. Ma mi sta bene così. Preferisco la vita vera alla virtualità, la dura realtà al facile sogno».
Dunque, non tutto è geometricamente prevedibile e logicamente eseguibile. È questo che impedisce al calcio di realizzarsi scientificamente?
«Attenzione. Io posso, voglio e devo prevedere fino a venti metri dalla porta avversaria. Ma lì, in quei venti metri, si scatenano le forze dell’ignoto: la casualità, gli eventi, il genio degli attaccanti. Si dice che l’allenatore governi fino ai trequarti del campo e che poi determinante sia il presidente».
Si può dire, allora, che lei preferisce il giocatore intelligente a quello esclusivamente tecnico-dotato?
«Mi scusi, direttore, ma la domanda è mal posta. Cosa si intende per giocatore intelligente? Per me tecnica e visione di gioco, creatività e rispetto delle varianti di uno schema, vita e gioco sono un’unica cosa. Ed è per questo che scriverei quel capitolo su Marek Hamsik, proprio per spiegare questo concetto».
E tuttavia, le sue valutazioni sui giocatori talvolta mutano. C’è un tempo, ad esempio, in cui preferisce Dossena, veloce sulla fascia e preciso nell’assist di prima. E un altro in cui sceglie invece Zuniga, tecnicamente superdotato, un giocoliere. Cosa pensa quando Zuniga, a dispetto di tutte le sue teorie sul tempo, dribbla, dribbla e ancora dribbla?
«Dossena-Zuniga, l’eterno dilemma. In realtà, con il primo abbiamo sfondato grazie alla difesa a tre, mentre con il secondo abbiamo rotto lo schema quando l’avversario ha tentato di neutralizzarlo».
Nella sua visione olistica del calcio tutto si tiene, giusto? Teoria e prassi, tecnica e tattica, schema e anti-schema, vita e sport-spettacolo.
«Per molti versi sì, ma su un punto in particolare direi proprio di no. Io, ad esempio, non rinuncio alla mia vita privata, non amo apparire in televisione e se vado a Coverciano, all’università del calcio, preferisco ascoltare anziché parlare. Non vorrei spararla grossa, ma mi creda: preferisco essere, piuttosto che apparire».
Messa così, tra Heidegger e Pirandello, in effetti la sua è un’affermazione alquanto smarginata.
«Mi spiego. Ad un certo punto della mia vita ho deciso di tagliare i capelli: vede? Ora li ho corti, ma quando ero giovane li portavo lunghi fino alle spalle e mi dicevano che ero un “fighetto”, che ero frivolo. Frivolo un tubo! Ho cominciato a guadagnare quando gli altri pensavano solo a divertirsi, e a investite in borsa quando per gli altri c’erano solo le donne. Sarà che allora le donne mi venivano a cercare (“Signora, mi scusi, sa”, rivolto a Monica Scozzafava), ma io, poi, i capelli li ho tagliati non per apparire diverso, o per un fatto estetico. No, io li ho tagliati perché a cinquanta anni non era più il caso di portarli così».
Il tempo passa per tutti, anche per lei: è questo che vuole dire?
«Già. L’importante è saperlo vivere».
E lei continuerà ancora per molto a viverlo in modo così totalizzante, così competitivo?
«Ci voglio pensare, ci devo pensare. Ho dedicato il 95% della mia vita al calcio e ciò nonostante ho un bel rapporto con mia moglie e con mio figlio. Ora devo prendermi il tempo per pensare un po’».
Non per indurla a restare in campo, ma si ricordi che la competizione è comunque una forma di socializzazione: per competere bisogna essere almeno in due.
«Ah, questa è buona, grazie».
Auguri, Mazzarri. Buon 2013.
Auguri a tutti i lettori.
Marco Demarco (tratto dal Corriere del Mezzogiorno)