Marotta: «Il settore giovanile è una vera e propria palestra di vita, perciò il nostro dovere è educare i ragazzi fin dai più giovani»

«Il problema è la mancanza di cultura della sconfitta: non sappiamo perdere. E quando non si accetta la sconfitta, le reazioni istintive possono sfociare nella violenza.»

Ultras inter Marotta Fiorentina-Inter Var

Db Monza 07/08/2024 - amichevole / Inter-Al Ittihad / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Giuseppe Marotta

Giuseppe Marotta, amministratore delegato dell’Inter, è intervenuto in Lombardia all’evento “Il fischio che unisce – Costruire una cultura di rispetto nello sport”, tenutosi al Belvedere Silvio Berlusconi di Palazzo Lombardia. Queste sono le dichiarazioni di Marotta:

«Sappiamo tutti che il calcio è un fenomeno di grande aggregazione. È uno sport fatto di promozioni, vittorie e sconfitte, ma è soprattutto un fenomeno sociale, un contenitore di valori importanti che deve promuovere l’inclusione, un tema delicato e fondamentale. Chi lavora nel calcio, in particolare le società, ha responsabilità importanti. Noi gestiamo 15 squadre del settore giovanile, altre sette tra settore giovanile e prima squadra femminile, per un totale di circa 300 atleti».

Le parole di Marotta

Come si può educare i giovani calciatori a gestire la sconfitta e a rispettare le regole, prevenendo atteggiamenti violenti?

«È chiaro che la missione principale è creare atleti pronti a giocare in prima squadra, ma il settore giovanile è anche una vera e propria palestra di vita, quindi il nostro dovere è educarli. Sicuramente non facciamo ancora tutto il necessario, perché molte forme di violenza verso l’arbitro nascono soprattutto da una cattiva educazione e dalla scarsa capacità di recepire i messaggi, anche da parte dei dirigenti. Gli episodi di violenza compiuti dai dirigenti sono infatti più frequenti di quelli dei calciatori o degli allenatori, a testimonianza del fatto che spesso si ricoprono ruoli dirigenziali senza la preparazione adeguata».

In che modo l’Inter, attraverso iniziative come “Il calcio in cattedra” e il lavoro degli addetti agli arbitri, educa i giovani calciatori alla cultura della sconfitta e al rispetto delle regole?

«Io ho la fortuna di essere in una società professionistica e quindi di avere a disposizione un budget tale da darmi la possibilità di avere a che fare con professionisti del settore educativo, che danno un supporto a noi dirigenti nel far crescere questi ragazzi. Il fatto di educarli e farli crescere, cercando di far capire loro i valori più importanti, dovrebbe facilitare questo percorso. Ma credo che un fenomeno che condiziona ancora oggi l’attività agonistica della nostra Italia, a differenza di tanti Paesi del nord Europa, è la mancanza della cultura della sconfitta. Noi non siamo capaci di perdere. E quando non siamo capaci di perdere si dà spazio a reazione istintive che portano alla violenza.

Sarebbe bello andare a fare un paragone con quello che succede all’estero, soprattutto nei paesi nordici. Gli atti di violenza secondo me nascono soprattutto da questo concetto, ossia il fatto di non conoscere la cultura della sconfitta, che va di pari passo con la cultura della vittoria. La cultura della vittoria è importante per stimolare i nostri atleti a vincere. Bisogna sapere cosa vuol dire soffrire, avere spirito di sacrificio e così vincere. Sta a noi cercare di fare questo.

Come Inter, noi lo facciamo attraverso un percorso didattico, anche nelle scuole, attraverso iniziative che portiamo avanti, come ‘Il calcio in cattedra’, per inculcare i valori più importanti. Lo facciamo all’interno del nostro club, non a caso abbiamo ben 4 di quelli che un tempo erano definiti ‘addetti agli arbitri’. Ma l’addetto all’arbitro di oggi non è quello che aspetta l’arbitro, lo accoglie e lo porta negli spogliatoi. E’ soprattutto quello che durante la settimana insegna ai nostri calciatori, anche quelli della prima squadra, a seguire le regole del gioco che qualcuno ignora».

Marotta riflette poi sulla violenza:

«In prima squadra gli episodi di violenza sono rari, perché si tratta di professionisti che non cedono a comportamenti aggressivi. Purtroppo, nei settori dilettantistici e amatoriali, gli scontri violenti possono capitare: chi gioca a calcio spesso fa altro nella vita e non esita a reagire, anche con un pugno all’arbitro. Il compito del referee manager è proprio quello di educare giovani e meno giovani a conoscere le regole del gioco, un aspetto che, a mio avviso, dovrebbe essere obbligatorio all’interno dei club. La conoscenza delle regole è infatti un deterrente fondamentale contro la violenza».

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