Buffon: «La vocazione tattica del calcio italiano è sicuramente limitante. Mio figlio? Non ha fatto ancora niente»
Alla Gazzetta: «Si dovrebbe ripartire dai sette ai tredici anni, è in quella fase che c'è l’imprinting. Oggi mio figlio Louis ha lo 0,5% di chance di diventare un calciatore».

Db Reggio Emilia 09/06/2025 - qualificazioni Mondiali 2026 / Italia-Moldova / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Gianluigi Buffon
Buffon si racconta in esclusiva alla Gazzetta dello Sport, parlando della Nazionale e non solo. Dalle riflessioni sul presente del calcio italiano ai consigli per il futuro. Ecco alcune domande e risposte:
«Ci siamo adagiati sulla nostra forza, ma dovevamo ripensare i modelli tecnici e tattici. Siamo stati cicale. Rino è il ct giusto, ha intuizioni e fa gruppo: si vince solo così».
Le parole di Buffon
Parla Gigi Buffon, capodelegazione e direttore sportivo della Nazionale, spirito guida dagli alti dei suoi 176 gettoni e del Mondiale vinto, che dopo dieci giorni di passione preferisce impostare tutto dal basso.
«Sa qual è il problema? Vivere in due mondi che non s’incontrano. Da un lato, in virtù della nostra storia, siamo presuntuosi: pensiamo che tutto ci sia dovuto per grazia divina. Dall’altro però facciamo grandi analisi sull’evoluzione del calcio, sul fatto che non esistano più le piccole, e siamo tutti d’accordo. Ma quando queste ‘piccole’ ti mettono in difficoltà, oppure le batti solo 1-0, ecco che senti: ‘Non si può vincere così, che vergogna…’. E dalla spocchia precipiti nella paura. Una discreta propensione al tafazzismo. Ma è così difficile trovare un equilibrio?».
Al ritorno dal Sudafrica, lei aveva detto: ‘Qui abbiamo sbagliato qualcosa, non c’è dubbio. Ma attenzione: tra qualche anno ci ritroveremo a festeggiare le qualificazioni, non un Mondiale vinto’. Profetico?
«Avevo capito quello che stava succedendo, i cambiamenti in corso più veloci di quanto si pensasse. Era una provocazione, ma fino a un certo punto. Volevo anche che non ci raccontassimo storie che non esistono più».
Storie che, però, non coinvolgono Spagna e Francia: loro sono ancora grandissime.
«Un momento la Francia è una grande da trent’anni, la Spagna da quasi venti, loro sono nel presente. La nostra storia è molto più lunga. Stiamo vivendo un periodo di transizione e non abbiamo capito quale strada prendere. Paghiamo anche gli errori del passato. I risultati di oggi risalgono a venti anni fa, a quando ci siamo adagiati sulla nostra forza, su Buffon, Cannavaro, Totti. Pensando che sarebbe stato eterno per grazia ricevuta. Già allora dovevi ripensare a modelli tecnici e tattici, ma siamo stati cicale».
Soluzioni?
«Ripartire dal basso: intendo da sette a tredici anni, quando c’è il vero imprinting. Dai quindici anni puoi sempre migliorare, però il talento si forma prima, oltre all’aiuto di madre natura che non trascurerei. Con Prandelli stiamo parlando per capire come impostare questo lavoro, ma volevamo aspettare le qualificazioni per definire il tutto. E se poi va male, ci siamo detti? Tutti via, si torna a casa, arriva uno nuovo con altre idee e magari cancella il progetto… Se si cominciano progetti così, ci vuole stabilità».
Abolire il risultato nelle giovanili, premiare il gioco e far vincere con gli “expected goals”: può essere un’idea?
«Può esserlo. Noi però siamo cresciuti con i risultati anche da bambini: giocavamo per vincere, poi la tattica ha preso il sopravvento nell’età adolescenziale. Ne parlo spesso con Maurizio Viscidi (coordinatore delle giovanili, ndr): grandi risultati nelle Under, ma a un certo punto la crescita si ferma. Questa nostra vocazione tattica è sicuramente limitante, però ci serve anche a coprire alcune carenze: non è che ci sia uno come Yamal in giro… Ma una cosa è sicura: dobbiamo tornare ad allenare le abilità».
Non è male la Norvegia.
«Non male? Una top. Una delle tre o quattro più forti d’Europa. La Norvegia farà strada al Mondiale: ha entusiasmo perché sa di poter scrivere la storia, due o tre talenti che spaccano, e una fisicità unita al dinamismo, impressionante, non come trenta anni fa quando i giganti erano immobili, impacciati. A leggere la loro distinta a San Siro mettevano paura…».
A proposito di sogni… come facciamo a non chiederle di Louis Thomas dopo i sei gol con l’Under 19 ceca?
«Mio figlio? Ah, be’, fino a quattro o cinque mesi fa aveva l’uno per cento di possibilità di essere un calciatore. Ora ha soltanto lo zero virgola cinque. Perché non ha ancora fatto niente, ha dieci minuti di Serie A addosso e gli ho detto di non leggere niente che lo riguardi. Stiamo correndo troppo e non gli fa bene. Quando giocavo e cominciavano i primi elogi, papà e mamma mi ricordavano che in famiglia una decina di persone avevano già vestito maglie di varie nazionali, quindi non facevo niente di speciale. È servito tantissimo».











