Tebas e l’astio verso i provinciali: El País racconta come il calcio resiste al marketing
La Liga privilegia sponsor e marketing invece dei tifosi. Il calcio provinciale resiste, fedele a stadi, tradizioni e passione autentica.

2021 archivio Image Sport / Calcio / Javier Tebas / foto Imago/Image Sport
La critica a Tebas: la Liga punta al marketing globale, ignorando tifosi e tradizione. Il calcio provinciale resiste, fedele a stadi, rituali e passione autentica.
“Ero già provinciale molto prima che a Javier Tebas gli si scaldasse la bocca, come a quei tuiteros del quartiere Salamanca, privi di esperienza di strada. E ne vado molto fiero. Ci vorrebbe ben altro di un appartamentino in affitto nel centro di Madrid, o di una partita di Liga in uno stadio pacchiano di Miami, per togliermi l’orgoglio di essere di provincia, di essere nato in un angolino del mondo dove i bar aprono prima delle scuole e il calcio si inizia a sentire tra le pozzanghere, proprio nel punto in cui mio cugino Marcos mi ha rotto due denti con un pallone. Qui non cataloghiamo i tifosi in base al prezzo del biglietto. Né riduciamo la passione a una presentazione in PowerPoint. E, sinceramente, non ci sembra di andare così male”, scrive Rafa Cabeleira per El País.
Tebas e il calcio lontano dai tifosi
Scrive El País:
“Può darsi che a un certo punto qualcuno ci spieghi, forse lo stesso presidente dell’associazione dei club, in cosa consistesse esattamente quella opportunità persa per il calcio spagnolo nel suo complesso. Dove risieda il beneficio collettivo di spostare una partita di Liga nel cortile del vicino ricco che vive a migliaia di chilometri dallo stadio più vicino e come si capitalizzi la delocalizzazione. In che modo migliora l’esperienza dei tifosi far sì che Lamine Yamal e Gerard Valentín debbano attraversare un oceano per scattare foto con qualche dirigente. Perché una competizione che vanta buona salute e tradizione dovrebbe trasformarsi in una franchigia con anima da pizzeria australiana.
A mancare sono argomenti più solidi di qualche luce al neon: l’unica vera opportunità persa dal nostro calcio sembra essere quella di aver fatto la figura barbina su scala intercontinentale, supponendo che ciò non fosse già incluso ‘di serie’ nella gestione. Come nei peggiori film di serie B, tutta questa avventura sembrava seguire un piano stravagante presentato con la consueta trasparenza: nessuna. Se il calcio appartiene ai calciatori, come diceva Johan Cruyff, o ai tifosi, come si ripete quando fa comodo ai protagonisti, questo progetto non era altro che una versione distopica del racconto, un business che non considera né l’uno né l’altro perché al centro dell’equazione ci sono solo La Liga e i suoi sponsor, sempre pronti a trasformare un calcio d’angolo o una finestra di cambi in un momento di branding”.
Sogni transatlantici e calcio provinciale
Conclude Rafa Cabeleira:
“Che sfrontatezza anteporre l’amore per la competizione domestica, i suoi stadi e le tradizioni del nostro calcio, invece di applaudire i sogni transatlantici del nuovo re. Non c’è da stupirsi se Tebas reagisce come un Albert Rivera delle grandi occasioni: dando la colpa di tutto alle deputazioni.
Sembra che non resti più traccia di quell’avvocato di Huesca che conosceva la Segunda B a memoria e comprendeva le difficoltà di riempire una curva in una qualunque giornata di pioggia. Per questo si lancia, dal suo balcone di marmo, a istruirci su modernità, globalizzazione e futuro. Perché non comprende più che il calcio si regge sulla nostalgia, sui luoghi comuni e su alcuni rituali che abbiamo bisogno di ripetere ogni fine settimana. Perché se essere provinciali significa amare più il boato di San Mamés o di Riazor che vedere Marc Anthony applaudire un autogol, qui ci saremo, fermi e orgogliosi, noi che non abbiamo bisogno di rinnovare il passaporto ogni anno per emozionarci: alcuni sognano Miami; noi, che non ci rubino la domenica”.











