Mancini: «Dopo l’addio di Spalletti, speravo di essere richiamato in Nazionale ma troppe incomprensioni»
«Con Gattuso questa è una buona nazionale, possiamo qualificarci. Non è facile, ma nel calcio succedono cose imprevedibili, tipo Belgio-Macedonia».

Saudi Arabia's Italian coach Roberto Mancini looks on during the 2026 FIFA World Cup AFC qualifiers football match between Saudi Arabia and Jordan at al-Awwal Stadium in Riyadh on June 11, 2024. (Photo by Fayez NURELDINE / AFP)
«Sì, tornare in nazionale resta un sogno. Come ho detto prima speravo di poter vincere anche un mondiale. La speranza c’è sempre, però poi il calcio è strano, a volte riserva delle cose inaspettate» — queste le parole di Roberto Mancini al Festival dello sport di Trento, dove ha parlato del suo addio alla nazionale. Lo riporta Ansa.
Le parole di Mancini
L’agenzia Ansa riporta le parole dell’allenatore:
«Ci sono state delle incomprensioni, perché era un momento un po’ così, neanche un brutto momento a livello di risultati. Stavamo cambiando un po’ la squadra, inserendo un sacco di giovani, eravamo andati per due anni consecutivi alla fase finale della National League. Sarebbe stato meglio chiarirle, forse da parte mia in primis, chiarire proprio le situazioni. Forse non c’è stato questo e poi dopo si fanno delle scelte che poi risultano anche sbagliate».
Mancini ha poi ammesso di aver sperato di essere richiamato sulla panchina azzurra dopo Spalletti: «Sinceramente sì, però sapevo che sarebbe stato quasi impossibile».
Sulla nazionale, ora allenata da Gattuso, ha dichiarato:
«Sta migliorando, ci sono un sacco di ragazzi che erano con me, quindi è una nazionale che sta migliorando, perché poi sono giocatori che stanno facendo esperienza, giocano partite importanti, quindi secondo me è una buona nazionale. Rino è una persona simpaticissima, sono felice per lui che sia nel posto più bello che ci possa essere come allenatore e spero che faccia bene. Chiaramente adesso la situazione è un po’ più ingarbugliata, però come ho detto prima nel calcio a volte succedono delle cose, tipo Belgio-Macedonia».
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Da qui in avanti, riporta la Gazzetta dello Sport. Ripercorrendo l’inizio della sua carriera da calciatore, ha ricordato le difficoltà iniziali:
«Rischiò mio papà in realtà, perché disse mia mamma che se mi fosse successo qualcosa lo avrebbe ammazzato. Era il 1978, spostarsi da Jesi a Bologna era come andare da Roma a New York, non fu facile per i miei come per me. All’inizio soffrii la mancanza della famiglia, e ora che ho la fortuna di avere ancora i genitori e la possibilità di tornarci, lo faccio volentieri.»
Sul lungo periodo con la Sampdoria e la vittoria dello scudetto:
«Negli anni Ottanta-Novanta la Samp aveva 45 anni, non era una squadra così vecchia. Aver vinto quasi tutto è stato una gioia immensa per i sampdoriani. Oggi non succede più di stare 15 anni in una squadra, anzi, il problema è che non ci sono quasi italiani. Si era creata una chimica, e poi c’era un presidente come Paolo Mantovani e un diesse come Paolo Borea. Una chimica come quella alla Samp non c’è stata in alcuna squadra.»
Sulla Nazionale da giocatore, tra il 1984 e il 1994, ha raccontato l’inizio turbolento:
«Era il mio debutto in Nazionale, con Bearzot e i reduci del titolo 1982, che per me è stata la più grande nazionale di sempre. Tournée tra Canada e Usa, ultima notte a New York, uscimmo e tornammo tardi, Bearzot ci rimproverò. Tornammo alle 6.30 del mattino, alle 9 partivamo. Era preoccupato, aveva lui la responsabilità.»
Sull’incontro con Moratti e l’avventura da allenatore all’Inter:
«Merito soprattutto di Moratti, comprava dei giocatori molto bravi. Se hai giocatori hai più possibilità, così siamo riusciti a tornare a vincere. Fino a quando arrivò l’annuncio del mio addio, inaspettato, in conferenza stampa: dissi “Io l’anno prossimo non sarò più l’allenatore dell’Inter” quando avevo ancora quattro anni di contratto. Forse si poteva anche tornare indietro, ma c’era un motivo, forse qualche giocatore con problemi fisici che non sarei riuscito a recuperare. Problemi interni.»
Sul successo al Manchester City:
«Dopo una stagione pazzesca, lottavamo con lo United per il titolo, punto a punto. Stavamo quasi per morire, eravamo andati sotto di 8 punti, recuperammo tutto, e all’ultima giornata contro una squadra che lottava per non retrocedere, ci trovammo in una situazione pazzesca.»
Sulle esperienze in Russia e Turchia:
«Esperienza in Russia non semplice, ma importante sul piano personale. La Turchia? Posto meraviglioso, a Istanbul sembra di essere a Napoli, la gente è fantastica. Andavamo a giocare in Norvegia e c’erano 20mila turchi, hanno un attaccamento alla squadra folle.»
Sull’emozione di allenare la Nazionale:
«Accettarla fu facile, la Nazionale è un sogno per ogni allenatore. È stata l’esperienza più bella e importante. Siamo riusciti a fare qualcosa di impossibile, ma con merito.»
Sulle 11 vittorie consecutive e 37 partite senza perdere:
«Sì, un po’ ci sentivamo imbattibili. Chiudemmo a San Siro contro la Spagna in Nations League perché Bonucci dopo un quarto d’ora si fece espellere, altrimenti magari saremmo pure andati avanti con la striscia.»
Infine, sulla sua capacità di scovare talenti:
«Vedere i giocatori prima degli altri mi capitava anche da giocatore. Vidi prima Zidane che volevo portare alla Samp, vidi anche Cristiano Ronaldo. Ho visto tantissime partite, un po’ di occhio l’avevo. Pafundi? Fu una provocazione, ma un giocatore di 18 anni così talentuoso perché non giocava in Serie A.»
E sul ricordo degli amici scomparsi:
«Non è facile, pensi che Luca sia sempre a Londra, Sinisa a Roma, Eriksson a casa sua. Sì, si pensa al fatto che si poteva essere più vicini. E credo di avere dentro nemmeno la metà della forza che hanno avuto loro.»