Julio González: «Il giorno dell’incidente è stato il più bello della mia vita, perché mi ha dato un’altra opportunità»
L'ex Vicenza a Fanpage: «Ho aperto la mia scuola calcio per bambini, è stato un dono. Sono arrivati bimbi orfani e uno di loro è diventato mio figlio»

Nel 2004, Julio Valentin Ferreira González ha appena conquistato l’argento alle Olimpiadi di Atene segnando un gol che vale la vittoria contro il Brasile di Carlos Alberto Parreira. Un anno e mezzo dopo, González è pronto per i Mondiali che vincerà l’Italia, convocato dal suo Paraguay. Gioca nel Vicenza, 8 gol fino ad un pomeriggio di dicembre. Siamo nel 2005. Va a sbattere con la macchina, resta incastrato tra le lamiere, perde un braccio, il sinistro, amputato. E perde il resto della carriera.
La sua storia è diventata un libro “Vivo”. González, si diceva prima dell’incidente, era nella lista dei desideri della Roma (sarebbe stata la Roma di Spalletti, Totti, De Rossi, che arrivava seconda in campionato solo alle spalle dell’Inter di Mancini, ma che si toglieva anche la soddisfazione di sollevare la Coppa Italia…). Torna nella natia Asunçion, dove vive ancora , con l’ultimo disperato tentativo di tornare in campo, anche con un braccio solo. Gioca tre partite con il Tacuary, e poi si arrende.
Fanpage lo ha intervistando ripercorrendo proprio il periodo dell’incidente
E proprio quando tutto sembrava andare bene, l’incidente: quanto è stato difficile accettarlo?
«Guarda, non è stato tanto l’accettare di essere rimasto senza un braccio, ma quanto il fatto di veder svanire tutti i sogni e i sacrifici per i quali avevi fatto tante rinunce fino a quel momento. Mi faceva male anche pensare ai sacrifici e alle rinunce che i mei genitori avevano fatto per farmi arrivare fino a lì. Ero davvero ad un passo dal coronamento della carriera: a Vicenza giocavo, segnavo e anche se ero in scadenza di contratto, mister Camolese puntava sempre su di me. A fine stagione, oggi posso dirlo, sarei andato alla Roma, quella di Spalletti, Totti e De Rossi. In nazionale ero diventato titolare. Eppure, posso dirti che – da un lato – il giorno dell’incidente è stato il più bello della mia vita, perché mi ha dato un’altra opportunità. Certo, dovevo adattarmi alla nuova realtà, ma anche se avevo subito un brutto incidente, avevo ancora la possibilità di godermi la famiglia e pensare di poter ricominciare…».
Già, perché tu hai provato in tutti i modi a ricominciare a giocare, ma senza ricevere l’idoneità, almeno in Italia…
«Sì, ma come ti dicevo prima, io ho la testa dura. Si dice così, no (ride, ndr)? L’ho presa come una sfida: volevo dimostrare a tutti di potercela fare e, alla fine, ho avuto ragione io. Ho ripreso ad allenarmi, ma in Italia non ho più potuto giocare. Ci sono riuscito nella Serie A del Paraguay, anche se mi son reso conto che non era più la stessa cosa. Avevo problemi di equilibrio e continuavo a cadere. Avevo capito che non sarei più riuscito a tornare ai miei livelli, stavo già valutando di lasciare, poi mi sono anche fratturato la clavicola e a quel punto ho deciso di ritirarmi».
Hai avuto paura in quel momento? Mai detto “E adesso cosa faccio”?
«No, perché – come ti dicevo prima – mi ero già preparato a quell’eventualità. Mi sono subito iscritto al corso per allenatori e nel frattempo avevo già avviato la mia scuola calcio per bambini. È stato un passaggio quasi naturale. Poi, poter lavorare con i miei ragazzi, è stato un dono. Nella scuola calcio sono arrivati bimbi orfani e anche questo è stato un segno del destino: uno di questi – Moises – è diventato mio figlio. Oggi, che io sono qui in Italia, lui è diventato responsabile della mia scuola calcio, che nel frattempo era diventato un Inter Campus. È un ragazzo splendido, non potevo lasciare in mani migliori. Recentemente si è sposato e mi ha anche reso nonno. Quando dico che la vita ti offre sempre un’altra opportunità, intendo questo. Dopo quattro figli naturali, Moises è stato un altro dono del cielo».
In questo periodo è tornato proprio a Vicenza, dove tutti si ricordano ancora di lui: «Ogni volta che torno a Vicenza mi chiedo come sia possibile che la gente mi voglia così bene. Ogni volta penso “è passato tanto tempo, si saranno ormai dimenticati di me”, invece – se possibile – l’affetto aumenta. Per questo dico sempre che Vicenza è casa mia»