Maradona studiò Moser e il suo record in Messico. Dietro il gol del secolo, c’è il professor Del Monte

El Clarìn racconta che Diego fece una preparazione ad hoc per l'altura: come correre, come resistere allo sforzo. Oggi, 39 anni fa, cambiò la storia del calcio

André Lecoq var Maradona shilton La Mano de Dios Luzzi

Bildnummer: 01037656 Datum: 22.06.1986 Copyright: imago/Sven Simon Diego Armando Maradona (li., Argentinien) besorgt gegen Torwart Peter Shilton (England)

Maradona studiò Moser e il suo record in Messico. Dietro il gol del secolo, c’è il professor Del Monte

L’Argentina celebra oggi la giornata del Calciatore Argentino. Il genio, la raffinatezza, la classe di uomini come Diego Armando Maradona, Leo Messi, Mario Kempes, Angel Di Maria. La Nacion ricorda come

il 22 giugno 1986, nel leggendario Stadio Azteca, Diego Armando Maradona scrisse una delle pagine più gloriose del calcio mondiale. Prima andò a segno con il gol più controverso della storia: la famosa mano de dios, poi in soli 10,6 secondi e 44 passi, il numero 10 argentino percorse 52 metri, superò nell’ordine Glenn Hoddle, Peter Reid, Kenny Sansom, Terry Butcher, Terry Fenwick, e il portiere Peter Shilton per segnare il 2-0 all’Inghilterra. In totale, effettuò 44 passi, toccò la palla 12 volte e mantenne una velocità media di 18,5 km/h, il tutto in un pomeriggio caldo davanti a 114.580 spettatori gremiti allo Stadio Azteca. “Aquilone cosmico… da quale pianeta vieni?” scrisse Víctor Hugo Morales, con frasi rimaste nella memoria collettiva del popolo argentino. Quel gol spinse la Nazionale argentina verso il suo secondo titolo mondiale, dopo aver battuto il Belgio in semifinale e la Germania in finale.

Oggi, 39 anni dopo quell’impresa, il Gol del Secolo rimane molto più di un semplice gol: è un simbolo di talento, coraggio, contesto storico e orgoglio argentino. Ma il Clarin va oltre. Quel gol non nacque al 55esimo minuto. La sua genesi risaliva a diversi mesi prima, a Roma. «Ammiro Maradona per aver segnato il gol più bello della storia nelle peggiori circostanze possibili», disse Gary Lineker, attaccante inglese, il 22 giugno 1986. Lineker non esagerava: le condizioni di gioco all’Estadio Azteca erano difficili. Il manto erboso era bagnato, irregolare e in cattive condizioni a causa della scarsa manutenzione. Ma l’altitudine rappresentava una sfida ancora più grande: Città del Messico, situata a 2.200 metri sul livello del mare, rappresentava un ulteriore problema. La mancanza di ossigeno, tipica a queste altitudini, poteva rapidamente indebolire anche gli atleti più forti.

Ne era a conoscenza Carlos Salvador Bilardo, allenatore della squadra argentina che organizzò un ritiro a Tilcara, città di Jujuy, a 2.400 metri sul livello del mare, per aiutare i suoi giocatori ad acclimatarsi. Tuttavia, Diego Armando Maradona non partecipò a questo allenamento.

Maradona andava a Roma a prepararsi

Mentre i suoi compagni di squadra si allenavano sugli altopiani di Jujuy – racconta il Clarin -, il capitano argentino studiò la storia di Francesco Moser che aveva battuto il record dell’ora, a Città del Messico. Fernando Signorini, suo storico preparatore, lo mise in contatto con Antonio Dal Monte, preparatore di Moser e direttore scientifico e responsabile del dipartimento di Fisiologia e Biomeccanica dell’Istituto di Scienze Motorie del Coni. All’inizio di gennaio, Maradona e Signorini incontrarono Dal Monte. Gli specialisti illustrarono dettagliatamente il programma sviluppato per il ciclista italiano e come adattarlo alla preparazione del numero 10. Maradona decise di iniziare ad allenarsi quello stesso mese. Il calciatore argentino rispettava ogni domenica i suoi impegni con il Napoli e il giorno dopo intraprendeva un viaggio estenuante di oltre 200 chilometri dal sud Italia a Roma per allenarsi con Dal Monte.

Il primo obiettivo dell’equipe medica fu quello di analizzare a fondo il corpo di Diego: Diego era diverso. Aveva un’abilità eccezionale nello svolgere lavori fisici ad alta intensità in brevi periodi di tempo ma aveva bisogno di lunghi periodi di recupero. Questo schema di sforzo esplosivo e recupero prolungato in alta quota, dove la disponibilità di ossigeno è inferiore, potrebbe essere il suo tallone d’Achille. Pertanto, migliorare la sua resistenza e ridurre i tempi di recupero era una priorità. L’obiettivo era garantire che il capitano argentino potesse mantenere le sue prestazioni anche nelle difficili condizioni che avrebbe dovuto affrontare durante la Coppa del Mondo.

«Ogni volta che facevamo qualcosa, era proprio perché Diego potesse provare quella sensazione di fatica e soffocamento che avrebbe provato in Messico», ricordò Signorini anni dopo nel libro 1986: The True Story, di Gustavo Dejtiar e Oscar Barnade. Erano inclusi esercizi per regolare la frequenza di inspirazione ed espirazione, imparando a regolare la respirazione in base alle esigenze del momento. «Abbiamo iniziato a lavorare con movimenti legati al gioco, cercando sempre di raggiungere livelli estremamente impegnativi. Perché? Perché si abituasse non solo a raggiungere la soglia del dolore, ma anche a rimanerci, perché se ciò non accade, il limite prestazionale non aumenta; o rimane stabile o diminuisce», continua Signorini. Inoltre, sono state incluse sessioni specifiche per rafforzare le caviglie che presentavano vecchi infortuni. Per farlo, ha utilizzato piccoli dispositivi simili a scatole da scarpe su cui la star appoggiava il piede ed eseguiva una serie di movimenti articolari. Un lavoro meticoloso che ha trasformato una potenziale debolezza in un punto di forza.

L’analisi biomeccanica della corsa sul secondo gol

Osservando attentamente la corsa di Diego su quei 52 metri, si può notare che non è stata regolare né a velocità costante. La variabilità nelle sue falcate non è casuale. «All’inizio, fa diversi piccoli passi per aumentare la velocità, sfruttando il contatto iniziale con il terreno», spiega il paleontologo e biomeccanico Sergio Vizcaíno che è anche allenatore dei portieri. «Una volta raggiunta la velocità necessaria, Maradona ha iniziato a fare passi più lunghi, massimizzando l’efficienza dell’ossigeno e coprendo più distanza con meno passi», aggiunge il paleontologo. Questa è la cosiddetta ipotesi dell’homo runner: l’evoluzione ha favorito la resistenza alla velocità, forse a causa di strategie di caccia migliorate. La postura eretta, lo sviluppo di muscoli e tendini e persino la sudorazione sembrano supportare questa ipotesi. La sua postura, la sua visione e il suo stile di corsa non sono solo calcio. Nella sua storica corsa verso la porta di Peter Shilton, non ha mai piegato la schiena, non ha mai perso di vista l’orizzonte e ha saputo dosare perfettamente la sua energia. Involontariamente, Maradona può essere visto come un modello evolutivo che offre una finestra sulla nostra comprensione della storia dell’uomo come specie. Charly García, in una conversazione privata con Diego Maradona, gli chiese come fosse riuscito a segnare il gol contro gli inglesi. La risposta di Diego fu semplice e diretta: «Ho guardato la porta e ho schivato i calci». Con questa frase il 10 riassume non solo la commedia, ma la sua vita stessa, piena di ostacoli, sfide e superamenti . Oggi sappiamo che Diego, oltre al genio, ha potuto contare anche sulla scienza.

L’importanza del pollice opponibile

Non vi basta? Il Clarin analizza anche il gol de la Mano de dios. Un gesto rapido, quasi impercettibile : il pugno di Maradona su Peter Shilton prima che il portiere inglese potesse raggiungere la palla. Sotto quell’istinto malizioso si cela un tratto evolutivo unico: il pollice opponibile, testimone della nostra storia evolutiva.

«Il pollice è un dito che si muove indipendentemente dalle altre dita della mano e si oppone a loro, motivo per cui è noto come pollice opponibile», afferma Martina Pernigotti, dottoranda presso l’Università di Buenos Aires.
«Il pollice ci permette di usare gli strumenti con maggiore destrezza rispetto ad altri organismi che ne sono privi», continua il biologo specializzato in biologia evolutiva. La capacità di chiudere il pollice ci ha permesso di concentrare la forza nel pugno per trasmetterla alla palla, permettendole di colpire il portiere con un movimento preciso. Questa caratteristica è presente nella linea evolutiva umana da circa 2,3 milioni di anni; la prima specie in cui la riscontriamo è l’Homo habilis .

«La presenza del pollice è anche associata alla capacità di camminare su due gambe, non su quattro, e di liberare le mani», spiega Pernigotti. All’Estadio Azteca, questa sinfonia anatomica ha brillato in tutto il suo splendore: lì, la capacità di camminare su due gambe, l’abilità strumentale e la capacità di stringere il pugno si sono fuse in un movimento preciso. Ogni mossa di Maradona sembrava rendere omaggio a quei 2,3 milioni di anni di evoluzione umana.

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