Alla Stampa: «Il calcio non era uno sport che amavo. A Veronello con una pistola feci saltare i lampioni. Non ero a posto»

La Stampa intervista Gianfranco Zigoni, un simbolo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Le storie su di lui si sprecano, tra stravaganze e peccati di un calciatore spesso paragonato a Pel. Durante l’intervista Zingoni ripercorre la sua carriera trascorsa tra Torino, Roma e Verona. Confessa anche qualche sbaglio ma assicura di non avere rimpianti perché “il calcio è solo un ricordo e uno sport da insegnare ai bambini“.
Zigoni: «Il calcio non era uno sport che amavo»
Dall’Opitergina, squadra del paese, al Pordenone. Emozione zero perché «sentivo di essere il bambino più forte del mondo e sapevo che se andavo a provare al Pordenone, società satellite bianconera, mi prendevano. Volevo stare con i miei amici, così rifiutai, ma un prete che mi aveva visto giocare e non voleva sprecassi l’occasione, venne a parlare con mia mamma Stefania. Alla fine mi presentai e dopo due tocchi Rosetta mi arruolò. Però non ero felice, mi mancava il paese e non era uno sport che amavo».
Alla Juve: «Peggio ancora. Ero sempre giù, mi sentivo un pesce fuor d’acqua. E mica le società avevano lo psicologo come oggi. Unica cosa bella allenarmi con Sivori che per me era Dio».
Piccolo aneddoto su Sivori. «Una volta mi chiese di portargli la valigia e io risposi: “Prendi tu la mia”».
Zigoni aveva un bel caratterino ma anche un talento cristallino. «Ero convinto di essere più forte di tutti, però non amavo il sacrificio. Per questo ho reso al 30 per cento del mio potenziale. La Juve mi mandò al Genoa in prestito e sa cosa mi disse Viani, in veneto, dopo un’amichevole con il Milan in cui avevo ubriacato Trap e fatto 3 gol? “L’unica differenza tra te e Pelè è il colore della pelle».
Il carattere difficile e la bella vita un po’ alla George Best
Ma, come si diceva, il carattere di Zigoni non era per niente facile.
Una volta un pugno al terzino dell’Huelva che menava ad ogni contratto Kolbl. A Roma, in ritiro, con Herrera in panchina, «ci facevamo aprire le trattorie o semplicemente tiravamo tardi in strada tra birre e sigarette. E anche qualche colpo di pistola: un mio compagno, a Frascati, una sera fece saltare
tutti i lampioni».
E Lui? «Io li ho fatti saltare a Veronello qualche anno dopo: che deficiente, non ero a posto…».
Spesso venne anche definito il Best italiano: «Mi fa piacere, lui è stato immenso. Ma sigarette e whisky non fanno più parte della sua vita. Non ho paura di morire, ma ho cinque nipotini che amo e voglio stare con loro il più possibile».