Che ci fa uno così nella Serie A del “mio calcio”? Diamo a De Rossi un “suo” calcio prima che sia troppo tardi, troviamogliene uno d’ufficio

Date a Daniele De Rossi un “suo” calcio. Troviamogliene uno d’ufficio. Prima che sia troppo tardi, che la Roma s’accorga di aver dato la panchina ad un eretico fuori dal tempo, e che il poverino si ritrovi disoccupato. Perché è la seconda volta in pochi giorni che De Rossi va contro il pensiero unico del pallone contemporaneo: la sacralità geniale della propria tattica.
Dopo aver battuto la Salernitana De Rossi è andato ai microfoni e ha sentenziato: “Nel calcio possiamo parlare di schemi e di tutto il resto, ma vanno vinti i duelli. Il calcio è tutto lì, il resto è tutto troppo filosofico“.
“Bisogna essere attenti perché altrimenti le partite contro le squadre forti come la Salernitana le perdi. All’intervallo ho detto che se facciamo possesso palla lento non tiriamo mai in porta e così ne perdiamo parecchie di partite. Se invece andiamo dentro come degli avvoltoi siamo una squadra forte. C’è da lavorare nel capire i momenti della partita”.
Appena promosso ad allenatore della Roma era andato in conferenza stampa e aveva detto: “Mi sono innamorato di questo mestiere lavorando con Spalletti, poi la folgorazione definitiva è arrivata con Luis Enrique. Entrambi portano tanti uomini nella metà campo avversaria utilizzando quindi la difesa a quattro. Qui però la rosa è stata pensata per difendere a cinque, quindi devo valutare volta per volta come muovermi. Di sicuro rabbrividisco, anche quando lo dicono allenatori che stimo, davanti all’espressione “il mio calcio”. Il calcio non è di nessuno. Io vorrei solo che la Roma alla fine del nostro percorso fosse riconoscibile, come identità di gioco intendo”.