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La lezione di Kvaratskhelia: il talento è un sogno solo nostro, i campioni veri si fanno il mazzo

Siamo affascinati dal mito del predestinato, ma è una favoletta rassicurante. Invece Kvara ci ricorda che la differenza la fa sempre la fatica

La lezione di Kvaratskhelia: il talento è un sogno solo nostro, i campioni veri si fanno il mazzo

Leggere l’intervista di Kvaratskhelia al New York Times è faticoso. Perché svilisce tutta la letteratura di genere che stava fiorendo attorno a quello che pure il Nyt tratteggia come uno che “sembra un poeta d’amore torturato o un appassionato studente di politica”. L’estetica, oggigiorno, è tutto. Stavamo applicando, inconsciamente, a Kvara una riduzione ai minimi termini: genio, funambolo. Un calciatore dai mezzi fuori scala, scapigliato, irridente, immarcabile nel suo significato più lato. Incoercibile. Un George Best analcolico. Il talento in purezza, tenuto fin lì nascosto in esclusiva per noi (bravi – noi – a rintracciarne lo sbrilluccichio nel fango georgiano). Lui risponde alle domande ed è disarmante:

«Il modo in cui gioco è sia cuore che pensiero cosciente, se non usi il cervello non migliorerai mai»  

E no, non si fa così. Il castello di carte soffiato via da questo inatteso pragmatismo. Il “pensiero cosciente”… ma come? Ma non eri quello che prende palla e va, che se ne fotte, che sportella, sterza, s’impunta, strappa, circuisce e infine aaaaah… segna. Urgente come uno starnuto. Ce l’hai dentro, non puoi tenerti. Invece no: il cervello, dici. Hai rovinato tutto, Khvicha.

E’ che alla gente piacciono le favole della facilità innata, perché sono accudenti. Rassicuranti. Come se ci sollevassero dal peso dell’impegno per riuscire, del sudore, dell’intoppo, della complicazione. E’ un meccanismo pigro, a tradimento: proprio il talento che basta a se stesso è escludente di natura, chi non ce l’ha – noi – è fregato. Invece l’etica del lavoro lascia teoricamente una speranza a tutti. Epperò subiamo la fascinazione di chi ce la fa per combinazione congenita. Gli dei prendono le forme della nostra creduloneria, da millenni.

Kvaratskhelia invece è “solo” un campione. Cioè uno che ha talento, intelligenza e abnegazione. Delle tre variabili, la prima è inservibile senza le altre due. Maradona – a dispetto del processo di beatificazione reiterata da cui non riusciva peraltro a difendersi – era quello delle ore di straordinari dopo l’allenamento, ancor più che il santino che evocavamo alla domenica. Per traslazione, non basta avere la mano di Paire per diventare Federer. O il piede di Cassano per trasformarsi in Platini. Bestemmie a parte, la vita del fuoriclasse, che duri più di 10 minuti e un tozzo di visibilità, non si misura in ostentazione metafisica, ma in joule: energia, calore e lavoro.

“Senza cervello non migliori”. Kvaratskhelia in quattro parole secche dice più cose: che nessuno ti regala niente, figurarsi. E che la qualità non è ferma, dopo un po’ scade come lo yogurt. Va alimentata. Devi “migliorare”. Il nemico, qui, è l’assuefazione. La dannazione di chi avrebbe avuto quegli stessi mezzi superdotati senza la prontezza di riflessi (la maturità, anche solo un mentore) per “usarli” fino a consumarli.

Quindi Kvaratskhelia merita la nostra attenzione. Va riletto bene:

«Giochi con il tuo cuore, con passione, ma giochi anche con il tuo cervello cosciente. È più una cosa consapevole che altro, basata su ciò che hai imparato in allenamento, sugli errori che hai fatto in precedenza, sulle opzioni che ci sono».

Non è dunque l’istinto – certo, nasce tutto da lì – che lo guida ad insinuarsi tra 8 difensori dell’Atalanta, ma è un calcolo illuminato. Kvara non ha solo tecnicamente la possibilità di fare cose che altri non fanno, è che ha la velocità d’analisi per garantirsi una frazione di secondo in più, e per superare l’avversario rielaborando le “opzioni” a disposizione. Non di fare un gioco di prestigio, ma cose che ha “imparato in allenamento”.

Il segreto – a completare la lezione – ce lo svela lui stesso un passaggio dopo:

«Quando gioco, in un certo senso il gioco mi porta via»

E’ la scintilla che innesca il fenomeno: il piacere di abbandonarsi alla cosa che fai, alla stanchezza ma anche alla sua bellezza. La levità dello sforzo, la sublimazione. Il pensiero cosciente, altro che la favola del predestinato.

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