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Gianni Minà lontano dal giornalismo teatro, lavorava per lo spettatore

Insisteva sugli uomini, ne esaltava le fragilità. Non gli fu rinnovato il contratto in Rai, rifiutò il corteggiamento di Berlusconi

Gianni Minà lontano dal giornalismo teatro, lavorava per lo spettatore
An Milano 17/10/2013 - presentazione del dvd 'Maradona - Non sarò mai un uomo comune' / foto Andrea Ninni/Image Sport nella foto: Gianni Mina'

Il giornalismo perde un simbolo che è saltato sempre dall’altra parte del banco per restare in ascolto di chi intervistava. Attento, lasciava lo spazio al protagonista, lui quasi non esisteva, si vedeva a stento un microfono. In un giornalismo attuale più simile al teatro, Minà rappresentava lo spettatore che accendeva la scena con la sua curiosità. Nel 1978 fu cacciato dall’Argentina, lui presente come inviato al Mondiale, si permise di porre una domanda sui desaparecidos. Aveva fatto il suo mestiere, aveva scavato nella retorica per tirar fuori una notizia, aveva sgusciato la ruffianeria legandosi ai petali del contropotere.

Minà era unico. Non ne esisteva un doppione, uno simile, uno che potesse emularlo. Minà era unico proprio perché restava fuori da ogni logica sistemica, non si accodava alla fila della popolarità richiesta con arroganza, egli rincorreva la sua curiosità, insisteva sugli uomini, ne esaltava le fragilità quasi a farne diventare caratteristiche virtuose.

Icona terzomondista, ha mischiato i mondi unendoli attraverso le parole dei suoi taccuini. Potevano coesistere in un ordine ideale Marquez e Maradona, come Fidel ed Alì sempre tenendo il dito sul filo della coerenza: gli uomini davanti agli occhi e i personaggi alle belve mediatiche. L’ironia sottile che lo rendeva mite e accettabile anche ai salotti snob dello spettacolo a tutti i costi, lo proponeva come antidivo, antieroe ma dannatamente vero, presente ai tempi ma anticipandoli. Senza per forza imporre un pensiero, riusciva ad essere una breccia nell’oscurantismo crescente che cominciava a rompere gli argini alla fine del secolo scorso. Girava a cento all’ora in un circuito parallelo, nel vortice intimo dei contropoteri, in quelle stanze in cui si stava larghi perché in pochi. In quelle stanze in cui la realtà pretendeva una narrazione rispetto all’immagine fasulla propagata in maniera crescente dai media televisivi prima e dai social poi.

Non gli fu rinnovato il contratto in Rai, rifiutò il corteggiamento di Berlusconi, si legò al suo lavoro ricevendo premi e riconoscimenti in giro per il mondo. Fuori da qui, altrove. Il giornalismo italiano perde un pezzo così grande che si fa fatica a comprenderlo. Dovranno passare anni, molti anni ancora e quando sarà definitivamente sparita questa nobile arte allora, per ricominciare a formarla, si dovrà partire dall’esempio di Gianni Minà, il più grande.

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