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Il Napoli monotono e prevedibile non è il Napoli

A Milano si è visto l’opposto della squadra che ha fin qui dominato. Kvaratskhelia con la sindrome Insigne/Suso

Il Napoli monotono e prevedibile non è il Napoli
Napoli's Mexican forward Hirving Lozano (L) fights for the ball with Inter Milan's Turkish midfielder Hakan Calhanoglu during the Italian Serie A football match between Inter Milan and Napoli at Giuseppe Meazza stadium in Milan, on January 4, 2023 (Photo by Isabella BONOTTO / AFP)

Le parole di Spalletti

Nelle interviste postpartita di Inter-Napoli, Luciano Spalletti è stato piuttosto chiaro, e centrato, nella sua disamina. «Troppo lenti e poca qualità rispetto al solito», ha detto il mister. «Così è difficile far male all’Inter, una squadra che ha fatto le cose che fa sempre. Ovvero, ci è venuta addosso con Cahlanoglu su Lobotka e poi ha sfruttato Acerbi: un cliente scomodo, un difensore bravo a tenere la posizione e anche fisicamente si fa sentire». Non c’è molto altro da dire o da aggiungere, ma c’è molto da spiegare: nella prima frase di Spalletti, c’è la spiegazione della sconfitta tattica della squadra azzurra. Per spiegare invece la sconfitta reale, quella del risultato, bisogna riconoscere i meriti dell’Inter e di Inzaghi, la qualità dei giocatori in maglia nerazzurra e della manovra velocissima che ha portato all’imperioso colpo di testa di Dzeko.

Il gol decisivo di Inter-Napoli è molto più tattico di quello che si pensi. Nel senso che non è improvviso, né improvvisato: nasce da un’azione provata e riprovata nel corso della gara di ieri, e che sfrutta in modo perfetto i principi di riferimento, le spaziature, quindi l’essenza del calcio di Inzaghi. In poche parole: creazione di uno spazio attraverso una giocata fisica e tecnica insieme, ovvero il pallone fatto scorrere da Mkhitaryan e la resistenza al contrasto – blando, va detto – di Zambo Anguissa. Il lancio ad assecondare l’ampiezza esasperata garantita dal quinto di centrocampo, che proprio in quanto tale ha tanto spazio da attaccare davanti a sé. La velocità e il cross perfettamente calibrato di Dimarco. Il meraviglioso movimento a tergicristallo di Dzeko per confondere Rrahmani e liberarsi in area. Il colpo di testa maestoso del centravanti bosniaco.

Un bel gol

È questo il calcio dell’Inter. È questo il calcio del 3-5-2 fatto con tanti giocatori dal grande fisico, quelli che non hanno permesso a un Napoli sotto tono, troppo lento e con poca qualità, di creare azioni pericolose. Il Napoli in quest’azione ha difeso in modo poco intenso, forse. Anzi: è sicuramente così. Ma vanno riconosciuti anche i meriti dei nerazzurri, la perfetta aderenza tra le idee di Inzaghi e i giocatori scelti per affrontare il Napoli. Il gol, insomma, è maturato perché il gioco espresso dall’Inter è stato migliore rispetto a quello espresso dalla squadra di Spalletti. Ed è un discorso valido per l’intera gara giocata a San Siro. Cerchiamo di capire perché utilizzando i numeri e le evidenze tattiche, come da tradizione in questo spazio analitico del Napolista.

Possesso infruttuoso

Il primo dato significativo è quello che riguarda il possesso palla: il Napoli ha tenuto la sfera per il 64% del tempo di gioco. Eppure ha costruito solamente 7 tiri su azioni manovrata, di cui solamente 2 nello specchio della porta: quello di Raspadori a un soffio dal 90esimo e quello di Osimhen – che in realtà è un tocco dopo uno stop approssimativo – poco dopo il 50esimo.

Questo vuol dire che la squadra di Spalletti ha fatto possesso palla in modo infruttuoso o comunque poco efficace. Del resto anche i tiri finiti fuori, 4 in totale (i 3 mancanti risultano respinti dai difensori dell’Inter), non sono stati così pericolosi: l’unico arrivato al termine di una manovra lineare è stato quello di Zielinski, nel primo tempo, su tocco di Olivera; per la qualità dell’azione, va segnalata anche la deviazione di Anguissa su cross dalla destra, sempre nel primo tempo. In definitiva, resta troppo poco per non considerare meritata la mancata vittoria a San Siro.

Ma come ha fatto l’Inter a bloccare il Napoli? Dove finiscono i demeriti della squadra di Spalletti e iniziano i meriti di quella di Inzaghi? Bisogna partire dalle scelte di modulo e di formazione: l’Inter si è presentata alla ripresa del campionato con il suo solito assetto (3-5-2/5-3-2) ma con un laterale destro più accorto (Darmian )rispetto al solito (Dumfries), e anche a quello sinistro (Dimarco). L’obiettivo era – ovviamente – avere più possibilità di contenere Kvaratskhelia, Olivera e Zielinski, ma anche di assecondare un baricentro difensivo piuttosto basso, un approccio difensivo fondato sulla fisicità, sul presidio degli spazi e su distanze sempre ravvicinate tra i giocatori in campo.

Il 5-3-2 di Inzaghi in fase difensiva: blocchi bassi e Darmian sempre sulle tracce di Kvaratskhelia. Con Skriniar pronto a supportarlo.

Spalletti ha provato a forzare questo dispositivo difensivo con mosse elementari: la salida lavolpiana – cioè la discesa sistematica di un giocatore tra i due centrali difensivi per impostare il gioco – affidata a Lobotka, così da creare superiorità numerica rispetto al pressing portato dai due attaccanti dell’Inter; Di Lorenzo e Olivera che a inizio azione garantivano ampiezza e poi si scambiavano la posizione con Politano e Kvaratskhelia, creando i soliti triangoli di possesso sugli esterni.

In alto, Lobotka retrocede in mezzo ai due centrali per impostare il gioco; sopra, un’azione in cui Politano si abbassa per ricevere il pallone e Di Lorenzo si sovrappone dal suo lato: l’ex esterno del Sassuolo gioca coi piedi sulla linea laterale, praticamente.

In realtà l’utilizzo di questi meccanismi ha permesso all’Inter di difendere in modo più semplice. Anche perché Kvaratskhelia, forse anche a causa di una condizione fisica deficitaria, ha finito per essere vittima della sindrome di Suso/Insigne, vale a dire la tendenza a rimanere larghissimo e a tentare sempre e solo di convergere verso il centro portandosi la palla sul piede forte. In questo senso, il campetto dei 54 palloni giocati dall’esterno georgiano è piuttosto eloquente:

Kvara è stato davvero poco nel vivo del gioco

Come detto, molto è dipeso anche dalla condizione non proprio brillante di Kvaratskhelia, così come della gran parte dei suoi compagni. Ma la verità è molto più vicina all’analisi di Spalletti: il Napoli avrebbe dovuto essere più veloce e più coraggioso nel suo gioco offensivo. Avrebbe dovuto, molto semplicemente, costruire azioni più dirette, più verticali, così da sfruttare le proprie caratteristiche offensive dei propri calciatori. Osimhem su tutti. Come si vede chiaramente in una delle poche manovre potenzialmente pericolose attuate dagli uomini di Spalletti nel primo tempo:

Con due lanci, uno di Meret e uno di Politano, il Napoli mette Osimhen e Kvaratskhelia soli contro due difensori dell’Inter. Un controllo poco pregiato del nigeriano e un buon recupero del centrale nerazzurro cancellano una potenziale occasione, ma la domanda è: se Osimhen avesse avuto più occasioni per sprintare in 50 metri di campo aperto, Acerbi avrebbe offerto una prestazione così positiva? O forse sarebbe stato l’attaccante nigeriano a prevalere?

Questo non vuol dire che la squadra di Spalletti avrebbe dovuto buttare il pallone avanti in maniera intensiva e anche un po’ casuale – per quanto il breve video che vediamo sopra non immortala una manovra improvvisata, tutt’altro. Il punto, per riprendere di nuovo le parole del tecnico toscano, è che il possesso palla del Napoli avrebbe dovuto essere più veloce, più fluido. Quando questo tipo di possesso non riesce a manifestarsi seguendo direttrici sofisticate, quando il centromediano e/o le mezzali fanno fatica a imbucare il pallone tra le linee degli avversari, quando il centravanti non riesce a legare il gioco perché contenuto bene da Acerbi o da chi per esso, ecco un altro dei concetti espressi da Spalletti nel postpartita, allora bisogna cercare e trovare un’alternativa. E invece il Napoli ha continuato a tessere sempre la stessa tela. Allo stesso ritmo.

In fondo la dote migliore della squadra di Spalletti in questa stagione, almeno finora, è stata proprio la capacità di variare. Di alternare stili e meccanismi di gioco. Di switchare su un calcio più intenso e più verticale nel momento in cui un certo tipo di possesso palla si è dimostrato poco funzionale. A San Siro, l’Inter ha fatto valere la sua maggiore fisicità, la sua miglior condizione, e non ha dovuto snaturarsi per continuare a contenere il Napoli. Perché il Napoli, a sua volta, è rimasto avvitato al suo piano partita. E anche i cambi non hanno portato a un passaggio di stato. A una trasformazione tattica.

Il ritorno delle due punte

Dopo il vantaggio dell’Inter, l’assenza di una reale reazione da parte del Napoli – una sola conclusione tentata da Kvaratskhelia, per altro alla prima azione personale davvero pericolosa – ha convinto Spalletti a riproporre il 4-2-3-1. E quindi le due punte, con Raspadori accanto a Osimhen. In realtà abbiamo usato la numerazione 4-2-3-1 non a caso: l’ex Sassuolo in realtà si è mosso come sottopunta e non come attaccante puro, ha cercato di offrire una soluzione tra le linee ai centrali del Napoli e a Lobotka/Ndombélé, la nuova coppia di centrocampo varata da Spalletti.

Raspadori uomo-ovunque

Nonostante questo cambiamento, a cui sono seguiti i cambi Lozano-Politano e Kvara-Elmas, il Napoli non ha modificato il suo approccio. E l’Inter ha continuato a esercitare il suo predominio fisico, grazie soprattutto alla capacità di Gosens – il suo ingresso al posto di Dimarco è stata una grande intuizione da parte di Inzaghi – di garantire ampiezza e di pulire il possesso (il tedesco ha giocato 32 palloni in meno di mezz’ora in campo), all’onnipresenza di Barella (4 contrasti tentati, record tra tutti i giocatori in campo negli ultimi 30 minuti di gioco), ai palloni spazzati da Bastoni (4) e Acerbi (2), perfetti scudieri di uno Skriniar mai messo in difficoltà da Kvaratskhelia.

Spalletti ha provato l’all-in finale inserendo anche Simeone e passando al 4-2-4, e grazie a una massiccia presenza in area è arrivata l’unico vero tiro in porta costruito dal Napoli: al minuto 90′,  dopo un cross dalla sinistra risputato fuori dalla difesa dell’Inter, Raspadori è andato a riempire l’area di rigore insieme a Osimhen, Simeone e Lozano. Il pallone è tornato dalle sue parti e lui ha avuto la calma di addomesticarlo e cercare lo spiraglio per battere a rete, solo che la conclusione è venuta fuori troppo centrale. Praticamente addosso a Onana, che non ha dovuto neanche tuffarsi davvero per deviare la palla fuori dallo specchio.

La verità dei numeri

Il fatto che quello di Raspadori sia stato, di fatto, l’unico tiro in porta costruito dal Napoli potrebbe sembrare piuttosto allarmante. Da un certo punto di vista è sicuramente così, ma c’è un altro aspetto da considerare: anche l’Inter ha accumulato un solo tiro in porta, quello di Dzeko in occasione del gol decisivo, in tutta la partita. Certo, i nerazzurri hanno avuto delle occasioni abbastanza nitide nella prima parte di gara, con Dimarco e (soprattutto) con Darmian su assist di Lukaku, e anche lo stesso centravanti belga avrebbe potuto segnare al minuto 40′.

Ma resta il fatto che la partita, in fondo, è stata equilibrata. Che l’Inter ha dovuto offrire una prestazione di grande intensità e di enorme applicazione difensiva per dare la sensazione di essere superiore al Napoli. Si può anche dire, senza esagerare, che la squadra di Inzaghi abbia giocato la sua miglior partita stagionale – non a caso lo stesso Inzaghi, nelle interviste del postgara, ha parlato di «impresa» – per poter mettere insieme 6 tiri complessivi verso la porta di Meret. Di questi 6, solo uno è finito nello specchio.

La verità incontrovertibile dei numeri, quindi, dice che l’Inter ha giocato meglio del Napoli ma non ha fatto questa partita così scintillante. E allora la squadra di Spalletti ha di che recriminare, di che rammaricarsi. Una prova solo leggermente migliore avrebbe potuto portare a un risultato diverso. Molto diverso. È un discorso che vale a livello individuale ma anche tattico, per i giocatori e per l’allenatore: la condizione non ancora ottimale di chi è andato in campo ha pregiudicato quelle che sono le migliori espressioni della squadra azzurra; la guida in panchina non ha trovato il modo per cambiare piano a partita in corso, finendo per farsi battere sul piano tattico dall’allenatore avversario.

Conclusioni

Non è la prima partita che il Napoli ha affrontato e vissuto male, in questa stagione. E non è neanche la prima volta che la squadra di Spalletti ha perso il duello tattico con l’avversario. In fondo, anche incappare in un passo falso era inevitabile, se pensiamo che gli Azzurri in Serie A vincevano ininterrottamente dai tempi di Napoli-Lecce – e anche quello fu un passo falso piuttosto grosso, visto la differenza di censo tra le due squadre. Quindi, è davvero ingiusto fare drammi.

In realtà è ingiusto è anche dal punto di vista tattico: come detto – tra le righe e non – in questa analisi, la fisicità dell’Inter è stata determinante per indirizzare l’andamento della gara e della sfida tattica. E in Serie A non ci sono molte squadre fisicamente dotate ma anche tecnicamente valide come quella che ha Inzaghi. Anzi, si può dire che non ce ne sia nessuna. Forse c’è la Juventus, ma solo con tutti gli effettivi a disposizione.

Allo stesso modo, però, il calo accusato contro l’Inter va in qualche modo compreso, perché possa rimanere un caso. Stiamo parlando di campo, di strategie, di connessioni tra calciatori: se il problema accusato dal Napoli va semplicemente fatto risalire alla scarsa condizione atletica dei singoli e quindi del gruppo, non c’è molto da preoccuparsi, per Spalletti. Basterà che i suoi uomini smaltiscano i carichi di lavoro sostenuti durante i Mondiali perché ricomincino a giocare in maniera sciolta, fluida.

Altrimenti, cioè se dovesse trattarsi di un inizio di logorio o di stasi tattica, allora Spalletti deve evitare l’errore commesso a San Siro: rimanere ancorato per troppo tempo a una sola idea di gioco. A un solo piano-gara. In pochi possono disinnescarlo come ha fatto l’Inter, certo, ma il Napoli non può permettersi di stare fermo. Di non continuare a sperimentare, a evolvere. È così che gli azzurri si sono presi il primo posto e la palma di squadra più bella della Serie A. È l’unica strada che hanno per mantenere entrambe le cose.

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