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L’avversario del Napoli è l’autolesionismo di Napoli: ieri A16, oggi professionisti del lamento

Se De Laurentiis portasse quattro mesi la squadra in Valle d’Aosta, vinceremmo a mani basse. Qui, invece, servirà il coraggio dell’impopolarità

L’avversario del Napoli è l’autolesionismo di Napoli: ieri A16, oggi professionisti del lamento

Tra il Napoli e la vittoria del terzo scudetto c’è un unico ed enorme problema: la città di Napoli e il suo ambiente. Un Everest che rappresenta una scalata mille volte più ardua del campionato. Se guardassimo esclusivamente alle cose di campo, ci sentiremmo abbastanza tranquilli. Dopo 15 giornate, il Napoli è primo con otto punti di vantaggio sul Milan, dieci sulla Juve e undici sull’Inter. Ha conquistato 41 punti su 45. Un’enormità. Eppure l’infernale macchina del grande masochismo vesuviano si è messa in moto. E più si andrà avanti, più si presenteranno i momenti cruciali, più il blob dell’autolesionismo diventerà implacabile. Una massa informe, gelatinosa, che tutto fagocita.

È già cominciato. Napoli ha cominciato il cronico pianto preventivo: specialità in cui siamo – per distacco – leader mondiali. Non bastano il congruo vantaggio né le strabilianti prestazioni della banda Spalletti che (aveva ragione lui, gliene diamo atto) ha dimostrato di saper vincere senza Osimhen, senza Anguissa, senza Kvaratskhelia, senza Rrahmani. Ai tifosi del Napoli non basta. Il loro desiderio di lamentarsi è più forte di tutto. E quindi il tocco di mano di Danilo a Verona, l’intervento ai danni di Ikoné nell’area del Milan. Eccetera, eccetera.

Non serve una laurea in psicologia per comprendere che sono attestati di paura. Paura peraltro comprensibile perché solo una piccolissima porzione dell’ambiente Napoli ha vissuto e compreso il processo che ha portato alla costruzione della squadra che sta ammazzando il campionato e ha sbalordito in Europa. Non sanno quello che è successo. Volevano ammazzare il bambino e ora hanno paura perché potrebbe saltare la festa di compleanno.

Napoli si è ritrovata inconsapevolmente in testa alla classifica e con una squadra fortissima. L’ambiente – non va mai dimenticato – ha ferocemente osteggiato una delle più importanti campagne acquisti della storia del calcio italiano (e non solo). Un modello di economia aziendale. È questo un passaggio fondamentale. Quelli che in estate erano A16, che ostentavano tutta la loro incompetenza gridando “De Laurentiis vattene a Bari”, sono gli stessi che infestano l’ambiente gridando al complotto arbitrale. E non c’è differenza di censo. Anzi. A Napoli tutti ragionano così: primari, avvocati, notai, magistrati, professori universitari, uomini di spettacolo. Tutti. Sono quelli che hanno creduto alla rivoluzione proletaria di Sarri (sì a Napoli non ci siamo fatti mancare niente), allo scudetto perso in albergo. Quelli che ancora oggi riempiono la cassa toracica del loro nulla per gridare che Gattuso è meglio di Ancelotti. Che hanno fatto le barricate perché senza Ciro Mertens (e Insigne, e Koulibaly, e Ospina) non ci sarebbe stato futuro. E ovviamente fanno finta di non sentire le dichiarazioni di Elmas sullo spogliatoio di ieri e di oggi. Potremmo continuare all’infinito. A Napoli tutto è stravolto, è la città che più si avvicina alla famiglia Addams: qui il mondo è sottosopra e si è orgogliosi di questo.

Lottare per lo scudetto in queste condizioni, con una palla al piede di queste dimensioni, è un’impresa omerica. L’unico modo sicuro per vincere il campionato sarebbe portare per quattro mesi il Napoli in Valle d’Aosta. Lontano dal pantano. Si arriverebbe in città il giorno della partita, si gioca e poi via. Il campionato finirebbe a marzo. Non ci sarebbe alcun dubbio. Ahinoi, invece, resteranno tutti a Napoli, nelle sabbie mobili di Napoli. La foresta vergine di lacapriana memoria.

In queste condizioni, otto e dieci punti di vantaggio sono pochi. Pochissimi. È il motivo per cui, nonostante una superiorità calcistica imbarazzante, è prematuro sbilanciarsi. Non bisogna mai sottovalutare la forza distruttrice di Napoli. Leggendo i quotidiani, stamattina, abbiamo avuto l’impressione che Luciano Spalletti abbia voluto ricordare ai suoi pochi confidenti il lancio di uova che subì la scorsa primavera prima di Napoli-Sassuolo. E ha fatto bene a ricordarlo. Subì quel trattamento (non dimentichiamo l’ignobile striscione sull’auto rubata) dopo aver ripreso col cucchiaino una squadra stremata dal biennio dell’osannato Gattuso e averla portata a lottare per lo scudetto. Lui, Spalletti, che quando arrivò alla stazione Tav di Afragola non trovò neanche un cane ad accoglierlo. Il Napoli lottò per lo scudetto, lo perse, e si ritrovò i tifosi a lanciare uova e pietre. Con Mertens che fece il furbetto e cavalcò la protesta. E lo stesso De Laurentiis che abbandonò Spalletti in mezzo al mare. Il buon Luciano non ha dimenticato. Ha ragione da vendere. Però ci permettiamo di obiettargli che non è assecondando il populismo – come ha fatto anche all’inizio della stagione, screditando pubblicamente la rosa che aveva e ha a disposizione – che si trarrà d’impaccio dalle sabbie mobili. Servirà coraggio. Servirà il coraggio della solitudine e dell’impopolarità per entrare nella storia. Altrimenti non ce la farà. Com’è che disse? Ah sì: uomini forti, destini forti.

Si dovrà essere molto ma molto forti per fronteggiare l’ondata di autolesionismo e di retorica. Vanno combattute con fermezza, altrimenti si finirà col soccombere. Solo quando si parla del Napoli, i media si sentono in dovere di tastare il polso alla città. È tutto un “la città non si illude”, “la città ci crede”. Ci permettiamo di precisare che in realtà “la città è sulla banchina nella speranza che passi la metropolitana”. Ma il sindaco è troppo impegnato a preparare la cittadinanza onoraria di Mertens che, se solo avesse chiamato il figlio Ambrogio, sarebbe stato allontanato coi forconi.

Il Napoli deve fronteggiare tutto questo. E francamente sono compiti proibitivi, solitamente non richiesti a calciatori professionisti pur bravi come i nostri. Magari fosse solo una questione di campo. Avremmo già ordinato i fuochi d’artificio.

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