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Sarri: «Dovessi scegliere tra la finale di Champions e la Parigi-Roubaix, guarderei il ciclismo»

Intervista a Rsi Sport. «Mi danno dell’integralista ma sono un trasformista: cerco di adattare le mie idee ai giocatori di cui dispongo. Il calcio ha bisogno di essere salvato da se stesso»

Sarri: «Dovessi scegliere tra la finale di Champions e la Parigi-Roubaix, guarderei il ciclismo»
Udine 23/07/2020 - campionato di calcio serie A / Udinese-Juventus / foto Image Sport nella foto: Maurizio Sarri

Maurizio Sarri è stato intervistato da Rsi Sport per la Domenica Sportiva. Le sue dichiarazioni.

«Per me quello con il calcio è un innamoramento avuto fin da piccolo. La passione nasce dal fatto che è uno sport di squadra. Almeno io lo considero uno sport di squadra, anche se negli ultimi anni a livello mediatico viene dato molto più risalto alle individualità che non alla squadra. È uno sport da organizzare. Solamente il rugby ha le stesse caratteristiche di organizzazione del calcio: si gioca su un campo con  dimensioni estremamente ampie e tanti giocatori. Questo fatto di razionalizzare i movimenti dei giocatori è una grandissima passione, ma mi sono divertito anche a giocare».

Il calcio è un gioco complicato?

«È apparentemente semplice, forse per i singoli, poi in realtà coordinare 11 giocatori su un terreno non è proprio semplicissimo, ci vuole organizzazione. La vittoria? La vittoria è sicuramente importante per dare vigore alle idee. Ritengo però che se si è capaci di giocare un calcio divertente per chi lo guarda, questo sia più appagante anche dal punto di vista dei risultati. Può andarti male nel breve periodo, non alla lunga. Per vincere, negli ultimi anni, devi andare in certe società e in certe squadre. I giocatori di grandissimo livello fanno ancora la differenza. Una volta le differenze economiche tra le squadre in A erano di qualche miliardo, oggi sono di centinaia di milioni di euro. La diseguaglianza economica porta a vincere sempre le stesse squadre, questo si vede un po’ in tutti i campionati europei».

«Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio», lo disse Mou.

«E sono d’accordo perché 90 minuti che passi in campo sono la parodia della vita. Ci sono momenti esaltanti, momenti difficili, momenti in cui puoi vincere o puoi perdere, come succede normalmente nell’arco di una vita. Conoscere le storie di vita ti aiuta anche nel calcio».

Lei legge molto. Cosa cerca nella lettura?

«Cerco il piacere personale, prima di tutto. Io devo ringraziare tantissimo gli insegnanti che ho avuto, che mi hanno permesso di fare anche percorsi diversi da quelli che si fanno normalmente a scuola. Io a scuola mi annoiavo un po’, e allora m’hanno permesso di leggere molte cose che mi piacevano. La lettura è un momento di svago ma anche di forte arricchimento. Penso che mi serva anche per il mio lavoro. La facilità di linguaggio che ti può dare leggere così tanto può incidere anche nella professione».

Dostoevskij diceva che la bellezza salverà il mondo… e anche il calcio?

«Il calcio ha bisogno di essere salvato da se stesso e dalle proprie istituzioni. Si sta andando su una strada in cui è impossibile proporre la bellezza. Se si giocano 60 o 70 partite all’anno – comprese le Nazionali – è chiaro che non ci si allena più e produrre uno spettacolo divertente diventa sempre più difficile. Siamo in una fase in cui questo sport è vissuto come un business, invece è diventato un business quando era vissuto come sport».

Bukowski in un suo romanzo fa dire a un suo personaggio «mai fidarsi di quelli che vanno in giro in tuta».

«Dalle poche foto che ho visto di Bukowski lui era messo peggio che in tuta. Però ho un ammirazione talmente grande per Bukowski che gli perdono tutto. Il mio abbigliamento? Io a volte vedo partite della Primavera, giocate in campi improbabili, con gli allenatori con la divisa sociale e mi scappa sinceramente da ridere. Faccio un lavoro da campo, non vedo che ci sia di strano ad andare in campo in tuta, è la cosa più naturale del mondo. Quando lavoravo nella finanza andavo in giacca e cravatta ma in campo vado in tuta. Purtroppo conta sempre di più l’apparenza, è un qualcosa di ridicolo. Non è che il calcio è andato in questa direzione, è il mondo che è andato in questa direzione».

I soldi.

«I soldi nel calcio come nella vita ti aiutano, poi la felicità è un’altra storia. Nel calcio girano cifre immorali? Come è immorale il mondo attuale, sotto tanti punti di vista. Se un attore prende 30 milioni per un film è immorale ma probabilmente c’è un ritorno economico che li giustifica. Io lo ritengo ingiusto ma anche questo fa parte del mondo che viviamo attualmente».

Se aver lavorato in banca l’ha aiutato.

«Io dico sempre che i manager che vedo nel calcio in un’azienda normale sarebbero licenziati dopo pochi mesi. E quindi aver fatto parte di un’altro mondo in cui veramente ti devi scannare per aprirti una strada ti aiuta, sicuramente».

Il bambino nel calciatore.

«Cerco sempre di innescare un modo di giocare a calcio che non spenga mai il bambino che c’è nel calciatore, che porti il giocatore a stare a contatto con la palla molto spesso, perché il contatto con la palla è il motivo per cui tutti noi abbiamo cominciato a giocare a calcio. Il rapporto palla-uomo è un rapporto eterno, ci dà questo senso di divertimento».

Cosa ha pensato quando il termine «sarrismo» è finito sulla Treccani?

«Che s’era tutti perso la testa».

Il ciclismo.

«Se dovessi scegliere tra la finale di Champions League e la Parigi-Roubaix, guarderei sicuramente il ciclismo. Il ciclismo è uno sport vero. Pur rimanendo uno sport individuale, vedo che anche lì la squadra sta contando molto più dei singoli. I singoli forti sono sette o otto e alla fine tra di loro vien fuori chi ha la squadra più forte. È uno sport vero, è uno sport duro, comporta grande fatica. Occorre una passione veramente feroce. A differenza del calcio, poi, i grandi stipendi sono riservati a sette o otto corridori, il resto corrono per stipendi normali. Io ho un grandissimo rispetto per chi pratica questo sport e vederlo mi dà grande soddisfazione. Al di là del fatto che io venga da una famiglia di ciclisti…»

Il suo modo di lavorare.

«Se ti metti un obiettivo troppo semplice ti accontenti troppo facilmente. Un obiettivo dev’essere importante, quasi impossibile, magari un’utopia in modo tale da andare sempre a letto non contento, con un certo giramento. Solo così ti senti in obbligo di migliorare tutti i giorni».

La cultura del calcio in Italia.

«È un Paese particolare. A livello culturale sportivo non siamo messi benissimo. In Italia si fa più tifo contro gli avversari che per la propria squadra. Questo la dice lunga, non ho visto un comportamento simile in Inghilterra. Gli allenatori non sono educatori, almeno ai nostri livelli. A livello giovanile posso essere anche d’accordo. Ai nostri livelli hai a che fare con aziende individuali di fatturato milionario, quindi è difficile diventare educatore. Io come allenatore cerco di far passare dei messaggi, dei valori. Lo sport di squadra è fatto di valori.»

Chi è Maurizio Sarri.

«Io sono uno che cerca di migliorarsi tutti i giorni. Mi danno dell’integralista ma ho fatto tutti i moduli, ritengo che non sia assolutamente vero. Se mi chiedi una definizione, posso dirti che sono un trasformista: cerco di adattare le mie idee, alle quali non rinuncio, alle caratteristiche dei giocatori di cui dispongo in quel momento.

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