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Franco Branciaroli: «Basta film su Napoli, come se l’Italia fosse solo questa banda di napoletani»

L’attore teatrale a RollingStone: «Le inquadrature di Sorrentino sono roba banale, di repertorio. Com’è possibile passare da Antonioni, Fellini al cinema di oggi?»

Franco Branciaroli: «Basta film su Napoli, come se l’Italia fosse solo questa banda di napoletani»
Napoli all’Hotel Vesuvio la presentazione del film la Mano di Dio di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo e il cast (Kontrolab)

RollingStone ospita una bella intervista (da leggere) a Franco Branciaroli importante attore teatrale e ultimamente anche scrittore. Un anticonformista che non le manda a dire, anche al mondo del cinema e in particolar modo all’egemonia napoletana. L’intervista è di Gianmarco Aimi.

Oltre al teatro, guardi film o serie tv?
Non guardo nulla. Se non quando mi segnalano un bel film. Ma sono pochissimi.

Non trovi niente in grado di appassionarti?
Il cinema italiano è ridicolo, fa sempre parte dell’amatoriale. Lo disse anche Roman Polański: «È un cinema festivo». Ha ragione. Niente a che vedere con il cinema coreano o quello americano e inglese. Sarebbe ora di finirla di fare tutti i film su Napoli…

Ti riferisci a Paolo Sorrentino?
Ma sì, dai, ci siamo rotti! È come se l’Italia fosse solo questa banda di napoletani.

Fai attenzione, perché a Napoli sono particolarmente permalosi.
Ma non me ne fotte un cazzo! Dovete sapere una cosa. La mia generazione, nata nel ’47 con ancora l’odore della pirite nell’aria, ha avuto per cultura popolare quella americana. Conoscono molto meglio la loro rispetto a quella italiana. Non so chi sia Gaetano Salvemini, ma so tutto di Benjamin Franklin. E la mia cultura si è formata al cinema. Dai sei anni sono andato tutti i giorni al cinema, vedevo tre film al giorno. Senza scegliere quale, perché non ne sbagliavi uno. I film italiani, rispetto a quelli americani, erano già allora più difficili da capire per la gente.

Come mai?
Quando vedevo i film dei neorealisti non capivo niente, mentre i film americani li capivo al volo. Loro sì che hanno sempre fatto cinema popolare. Del cinema so tutto e nessun film di adesso mi può tramortire. Anche uno bravissimo di oggi non mi sturba. Nonostante questo, il cinema italiano di oggi è irriconoscibile. Cinematograficamente parlando abbiamo avuto qualcosa di simile agli elisabettiani, non solo Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, ma anche quelli “andanti” come Germi. Dove sono finiti? Com’è possibile sia uscito quello che ci propinano oggi?

Non posso credere che non ci siano nessuno che almeno lontanamente apprezzi.
Non è possibile, perché io sono stato martirizzato dal famoso specifico filmico. Come diceva Antonioni, con cui peraltro ho fatto un film, «la questione della macchina da presa è una questione morale». Per cui, appena vedo come inquadrano li sgamo. È difficile che uno che inquadra male abbia una bella storia, e anche se ce l’ha la racconta male. Questa gente non sa fare il cinema.

Non mi dirai che Paolo Sorrentino inquadra male?
È roba banale, di repertorio. Dicono: «Ha delle scene alla Fellini». Va bene, allora perché devo andare a vedere uno che sembra Fellini ma non lo è?

Tu hai girato anche cinque film con Tinto Brass.
Lui è l’ultimo regista di quella categoria. Se vedi La chiave, guarda le immagini. Sta filmando dei culi, eh, non il mantello di Ludwig… ma guarda come li filma. Io c’ero! Usava tre macchine per filmare dei culi usando metri e metri di pellicola paragonabili a quelli che usava Luchino Visconti. Cosa te ne frega, mi dirai tu. E no! Perché, se fossero stati girati male, non avrebbero incassato. Ma figurati, mi potresti rispondere, è la figa che conta. No, la figa c’è in un sacco di film. Invece in quelli lo spettatore sente che c’è una narrativa filmica, non letteraria. Poche parole e tante immagini ben realizzate. I film di oggi sono pieni di parole e con sei-sette immagini.

Dopo quei film, non ti sono arrivate altre offerte?
Sì, ma non le ricordo neanche e non le accettai perché non sono bravo con il cinema. Il perché me lo spiegò sempre Antonioni: «Il cinema italiano, in fondo, è teatro filmato». Infatti, tutte le commedie all’italiana vengono dall’avanspettacolo. E aggiunse: «Gli italiani non sono capaci di fare gli attori di cinema. Quando si dice che agli americani puoi vendere la fontana di Trevi è vero, ma quell’ingenuità davanti alla macchina da presa li rende dei principi. Perché non hanno l’autocoscienza». In pratica, voleva dire che noi latini abbiamo la coscienza sporca. Di fronte alla macchina ci auto-giudichiamo e quindi siamo morti. I popoli anglosassoni invece sono come dei bambini. Poi anche il cinema è tecnica. Alain Delon, che era un cane tremendo, dopo 45 film qualcosa ha imparato.

In una precedente intervista mi hai detto che il teatro oggi non è professionale.
È assolutamente amatoriale, lo ribadisco. È come se lo Stato avesse trasformato una questione di alta specializzazione in un parcheggio giovanile. Danno un po’ di soldi a questi disgraziati di giovani, come se i teatri fossero dei centri sociali. Allestiscono degli spettacoletti, obblighiamo i teatri stabili a farne trenta di merda, invece di due belli, e ci lavorano sette attori al posto di quaranta. Hanno nazionalizzato il reddito di cittadinanza. Il Ministero dello spettacolo lo aveva già scoperto prima del Movimento 5 Stelle. E mica triplicano i finanziamenti. Sembra che lavorino tanti giovani, questi si illudono e poi smettono quasi tutti. Li parcheggiano per un po’ con l’argent de poche, una sorta di paghetta, e quando diventano grandi se lo pigliano in culo senza soldi, pensione e cultura. Noi eravamo dei privilegiati: giovani, pagatissimi e di grande cultura.

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