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Gianni Clerici e la Davis del 76 in Cile: “gli inviati non distinguevano la pallina dal loro solito pallone”

Il ricordo su Repubblica. Il neologismo italopitechi coniato per il tifo da stadio del Foro Italico, le sue dimissioni al Giorno per la trasferta in Cile

Gianni Clerici e la Davis del 76 in Cile: “gli inviati non distinguevano la pallina dal loro solito pallone”

Ecco l’articolo che Gianni Clerici scrisse per Repubblica nel 2006, per il trentennale della Coppa Davis vinta in Cile. Spedizione e anni che in queste settimane sono perfettamente raccontata nella docu-fiction di Domenico Procacci su Sky “Una squadra”. Oggi Clerici è morto, a 91 anni.

Nell’istante in cui rifletto sull’immancabile vittoria di domani contro il derelitto Lussemburgo, sfoglio distrattamente un vecchio libro titolato Il Grande Tennis e mi balena davanti un’istantanea. È una foto nella quale Pietrangeli innalza verso il cielo di Santiago la Coppa, aiutato da Paolo Bertolucci. Fianco a Nicola sorride Adriano Panatta , mentre a sinistra si affaccia Barazzutti. Sommersi da tifosi plaudenti, tra i quali lo Scriba, si accodano Zugarelli e il dt Belardinelli. Era il 18 dicembre 1976, sabato, e Panatta-Bertolucci avevano appena battuto in doppio Cornejo-Fillol, conquistando così il terzo punto per un definitivo tre a zero sul Cile. Fu, questo, l’ultimo atto del nostro primo – e ahinoi – ultimo successo nella competizione creata dal sottosegretario americano alla guerra Dwight Davis, nel primo anno del secolo. Un’idea, una gara, in totale contrasto con il più individualista degli sport, con il più internazionale o, se preferite, il meno nazionalista.

Fin lì, in finale, noi italiani c’eravamo arrivati due volte, fallendo nel 1960 e ’61, con Sirola e lo stesso Pietrangeli che ora, la Coppa, l’aveva vinta da Capitano. In quell’avventurato 1976 i grandi meriti dei nostri tennisti non erano stati disgiunti da un sorteggio felice, e da una serie di circostanze favorevoli. Avevamo, in primo turno, passeggiato con la modestissima Polonia a Firenze. Battuta poi tanto nettamente a Bologna la Jugoslavia degli eccellenti Franulovic e Pilic che Nicola aveva suggerito di limitare i due vani singolari finali a tre soli set: prima volta nella storia della Coppa.

Proprio da quella partita avevo cominciato io stesso, per solito un poco scettico, a crederci. Guidando verso gli Internazionali romani insieme al mio amico Franulovic l’avevo sentito affermare “Se non vi mettete a litigare, questa volta ce la fate”. Era stato quello, ancor prima che la stagione di una autentica squadra, l’anno di Panatta. Aveva vinto non solo Roma, ma subito dopo, addirittura Roland Garros. E, nei due tornei, Barazzutti era stato sì battuto, ma soltanto da un fortissimo Guillermo Vilas. Avremmo dominato una Svezia priva dell’infortunato Borg, ma corso i rischi più seri vuoi per la stanchezza di Panatta, vuoi per l’antica provinciale riluttanza ad affrontare l’erba, contro gli inglesi. I nostri due titolari avrebbero fatto a gara nel negarsi, e Corrado sarebbe stato alla fine sostituito da un irritatissimo Nicola con Zugarelli. Riserva sì, e tuttavia capace di raggiungere una finale agli Internazionali, Zuga non era salito tra i primi del mondo solo perché privo di una falange della destra. Fu forse l’origine agreste a rendergli graditi i prati. Il merito del primo, e più difficile punto contro gli inglesi fu suo.

Sul viale così spianato i nostri transitarono felicemente, fino a ritrovarsi tra i marmi dall’amico Foro Italico, a fine settembre. Contro di noi si schieravano due grandissimi aussies, Newcombe e Roche, un tantino sbolliti e serenamente autocritici, se Newcombe ebbe a dirmi: “Sono i tuoi, che possono perdere. Per noi, vincere sarà difficile”. Contro il più tosto degli australiani, Alexander, Adriano sbagliò in effetti partita, e Barazzutti non fece molto di più. Ma, sul due pari, nell’infuriare di una curva che mi offrì un neologismo, italopitechi, Panatta sommerse Newcombe. Eravamo in finale, e contro una squadra inattesa, che aveva approfittato di un grottesco intervento dei gerarchi sovietici. Non informati dell’esistenza dei gulag, rimproverarono a Pinochet una modesta imitazione, e ritirarono i loro tennisti dalla semifinale. Iniziò allora una delle più paradossali vicende che l’italico sport ricordi. Pci e Psi volevano ad ogni costo impedire che i nostri varcassero i confini di un paese governato da un dittatore golpista.

Il paese ebbe modo di dimostrare una fin lì ignota partecipazione alle vicende tennistiche, ignorando il fatto che cinquantasei nazioni partecipanti alla Davis avessero accettato tra gli iscritti anche il Cile, per non parlare dell’Urss, o del Sudafrica dell’apartheid. La sede della Fit fu invasa e devastata da gruppi di nonni dei Black Block, al pittoresco grido di “non si giocano volèe contro il boia Pinochet”. Lo scriba svolgeva le sue umili mansioni nella redazione di un quotidiano, il Giorno, schierato contro il viaggio in Cile. Costretto a dimettermi, venni di nuovo assunto il mattino seguente da un direttore che diede grande esempio di democrazia: “Il giornale è contro. Tu sei a favore. Scrivi quel che credi” mi suggerì Italo Pietra.

Nel bel mezzo della polemica Panatta affermò che avrebbero dovuto togliergli il passaporto per impedirgli il viaggio. E Nicola Pietrangeli, accusato addirittura di fascismo, non arretrò di un centimetro. Aiutati anche da un saggio rappresentante del Pci, l’onorevole Pirastu, che qualche genio definì un “traditore”, riuscimmo finalmente a involarci. C’era addirittura un charter organizzato da Puli Bonomi, e c’erano un ventina di colleghi sportivi che non distinguevano la pallina dal loro solito pallone. Come mi ritrovai a seguire gli allenamenti, e uno di questi inviati mi informò che Fillol, il numero 1 cileno, stava cambiando il movimento del servizio, sorrisi. Capii che, grazie a un pur lieve stiramento inguinale, Fillol non era competitivo, e scrissi: “Il Cile è zoppo. Abbiamo già vinto”. Simile elementare profezia doveva rivelarsi più che fondata, se Barazzutti sommergeva Fillol, e il nostro doppio, che dai cileni era stato battuto al Roland Garros, si prendeva una facile rivincita. Finimmo applauditissimi da uno dei pubblici di Davis più sportivi che io ricordi. E, nonostante altri tre tentativi, sempre fuori casa, della stessa gloriosa squadra, e un altro, a Milano nel 1998, non riuscimmo mai a ripetere l’impresa cilena.

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