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Quando sparirà il gioco all’italiana, non chiamatelo più calcio

Il mainstream giochista non ammette autocritica. Non è mai sfiorato dal dubbio. Spiega le sue sconfitte col culo degli altri. Si sorprende persino che i portieri parino

Quando sparirà il gioco all’italiana, non chiamatelo più calcio
Gc Londra (Inghilterra) 16/03/2010 - Champions League / Chelsea-Inter / foto Giuseppe Celeste/Image Sport nella foto: Jose' Mourinho-Carlo Ancelotti

Nel nuovo calcio il “contrordine compagni” non esiste. La cara, vecchia, analisi del voto. Un sano esercizio di autocritica non appartiene a coloro i quali – va riconosciuto – hanno conquistato l’egemonia culturale del racconto del calcio che ormai possiamo considerare uno sport definitivamente stravolto. Al punto che formuliamo una nostra proposta: quando sarà scomparso l’ultimo granello di gioco all’italiana, cambiategli nome. Non chiamatelo più calcio.

Ma qualche resistente ancora c’è. Resistenti d’eccezione. Due su tutti: José Mourinho e Carlo Ancelotti. Eppure le due coppe vinte non hanno scalfito la corazza di prosopopea che ormai contraddistingue il racconto calcistico. Si è provato in ogni modo a eludere e a minimizzare quello che un tempo era considerato il verdetto inappellabile, ossia il risultato del campo. Ai due fischi finali di Conference e Champions il mainstream della narrazione calcistica (l’unica eccezione a certi livelli è rappresentata da Fabio Capello) non ha avuto il benché minimo dubbio nel trovare la chiave decisiva dei successi: il culo. Per il Real Madrid più che per la Roma perché in Italia non si è potuto esagerare. Ma per la finale di Champions il verdetto è stato pressoché unanime. Il culo è stata l’unica spiegazione che i profeti del nuovo calcio sono riusciti a trovare (con qualche eccezione certo) . Un po’ li comprendiamo. Una diversa analisi dovrebbe condurre loro a rivedere idee che hanno trasformato in dogmi.

L’abisso culturale è tale che oggi un portiere che para è considerato una sorta di extraterrestre. Non insinua il dubbio che probabilmente la visione contemporanea del portiere come undicesimo giocatore, utilizzato soprattutto con i piedi, possa essere la nuova versione della corazzata Potemkin secondo Fantozzi. No. Il dubbio non li sfiora minimamente. Eppure dietro la scelta di Courtois e di questa visione del ruolo c’è un allenatore che – avendo spalle robuste e non conoscendo la gregarietà culturale – da anni quasi in solitudine afferma che il portiere deve saper parare. Sembra una banalità ma non lo è. È stata una chiave del successo. La verità è rivoluzionaria, diceva quel tale. Nella strada alla conquista della Champions, il Real Madrid ha approfittato delle papere di Donnarumma prima e Mendy poi. Papere fino a un certo punto. Hanno eseguito le richieste dei loro allenatori sulla famigerata costruzione dal basso. Courtois, invece, ha scandalizzato le platee con quei bei rilanci lunghi di una volta. Orrore. Il risultato lo abbiamo visto sabato scorso allo Stade de France.

Courtois ha certamente eseguito parate importanti: una su Mané e almeno due su Salah. Ma è stato il risultato di una decisione tecnica. Meglio avere uno che sappia parare invece che uno sappia giocare coi piedi oppure che pensi di saper giocare coi piedi. Tranne qualche voce solitaria, praticamente nessuno lo ha sottolineato. Oggi lo storytelling è arrivato al punto di convincerci che ogni tiro in porta debba finire in rete, che ogni azione considerata gradevole, e quindi con non meno di sei-sette tocchi (almeno!), debba concludersi con un gol. Perché giudicata “esteticamente ineccepibile”. È la dittatura di quell’invenzione grottesca che sono gli expected goals. I gol attesi, quante volte una squadra avrebbe dovuto segnare in base alle occasioni create. Il calcio meccanizzato. E, ahinoi, grottesco.

Nella vita reale, però, non funziona così. Perché poi il centravanti si emoziona, svirgola, prende un ciuffo d’erba, oppure colpisce troppo bene, oppure il portiere avversario ci arriva, o il difensore infila uno stinco. Tutto questo non viene più contemplato. Se attacchi, meriti di vincere. Anche perché difendersi è così volgare. E se esistessero dei giudici, vero fine ultimo di questo movimento d’opinione, ti assegnerebbero il gol. Verrà il giorno in cui le reti saranno bandite dal gioco. Il calcio diventerà uno sport di figura, come la ginnastica o i tuffi, e sarà una giuria ad assegnare i voti e a decidere l’esito delle partite. Il sogno inconfessabile del mainstream calcistico.

In questi giorni quasi nessun esponente della nouvelle vague si è posto la domanda: ma vuoi vedere che stiamo raccontando frottole da anni? Perché sì il Liverpool e il Feyenoord avranno ricevuto anche il premio della critica ma poi le coppe le hanno alzate Madrid e Roma. E con due allenatori che qualcosina hanno vinto nelle loro carriere.

Toni Kroos, a fine partita, ha giustamente mandato a quel paese il giornalista della Zdf che gli chiedeva solo del dominio del Liverpool. Un altro incompetente come Benzema qualche mese fa disse a L’Equipe: “Non so come la gente veda il calcio, avere il possesso palla non significa che stai dominando”. Ma che vuoi che ne capisca Karim di pallone rispetto ai profeti di casa nostra, ai teorici della costruzione dal basso e ai maniaci del possesso palla?

Noi che siamo nati a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, ci siamo  innamorati di uno sport che era metafora della vita, sudore, merda e sangue, lontana anni luce dall’essere la versione terrena della Playstation. Se fossimo nati quindici anni fa, non seguiremmo mai questo sport. Come del resto, giustamente, fanno le nuove generazioni.

Arrigo Sacchi, commentando la finale di Champions sulla Gazzetta, si è dovuto piegare a scrivere una frase che gli sarà costata molto: “Mi viene da dire che il Real Madrid ha giocato all’italiana, ma questo era l’unica strada possibile per arrivare al successo”. E poi, poiché qualcosa di calcio ne sa (appena appena), ha offerto una breve ma lucidissima disamina tattica:

Carletto è stato molto intelligente: sicuramente sapeva che gli inglesi non erano al top della condizione atletica, ha scelto di partire prudente, di farli sfogare per avere un vantaggio nella ripresa. È stato un allenatore tattico che, conoscendo le forze dei suoi ragazzi e quelle del nemico ed essendo conscio di non potersela giocare sul piano del ritmo e della velocità, ha deciso di puntare sulla saggezza, sull’attenzione difensiva e sulla voglia di sacrificarsi dei suoi campioni.

È stata una scelta quella di aspettare gli avversari. Una scelta che ovviamente comporta un rischio calcolato. Può capitare che Mané si giri in area e colpisca il palo complice una deviazione del portiere. Ma poi ci sta anche che nella ripresa, sulla corsia di destra, Valverde si mangi tutti (Robertson compreso) e metta in mezzo per il gol vincente di Vinicius. E che nel corso della partita il bistrattato Carvajal si metta in saccoccia i fenomeni del Liverpool perennemente osannati dalla critica, li riduca al mal di testa di giorni.

Gianni Brera si sarebbe deliziato e avrebbe riso a crepapelle. Un tempo, si giocava per vincere. E, possibilmente nel rispetto della correttezza, si provava a predisporre tutte le soluzioni possibili per evitare che l’avversario dispiegasse tutta la sua forza. Oggi un simile comportamento è considerato disdicevole. Quasi un reato. Un attentato al buon gusto. Vige il “prego si accomodi”. E chi non si è adegua, mette il pullman, è l’anticalcio.

Stiamo assistendo, più o meno impotenti, allo stravolgimento del senso di questo che un tempo era un magnifico sport. E induce al pessimismo constatare che i principali esponenti del football considerato démodé siano due ultrasessantenni. Manca poco alla resa finale. I nuovi allenatori, comprensibilmente, abbracciano tutti il calcio di figura. Fanno bene. Si trova più facilmente lavoro se la tua squadra imbrocca dodici passaggi di fila. E alla fine dei conti, tutti dobbiamo mettere il piatto a tavola.

Concludiamo queste righe sapendo che è una battaglia persa, che ogni sconfitta dei profeti del nuovo calcio sarà spiegata col culo degli avversari. Quindi ci limitiamo a una preghiera. Quando l’ultimo allenatore vero si sarà ritirato, cioè quando non ci sarà più nessuno che farà giocare il portiere a porta, il terzino a terzino, il difensore centrale a difensore centrale. Ecco, quando i Mourinho e gli Ancelotti saranno passati a dedicarsi ad altro, cambiate nome al calcio. Lo sport che distrattamente continueremo a guardare, tutto sarà tranne che calcio.

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