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Sanchís e il mito della Quinta del Buitre: «A Madrid eravamo i Beatles, Butragueño era come Iglesias»

La leggenda del Real: “Abbiamo cambiato la società, potevamo vincere senza pensarci come eroi. Eravamo normali, oggi i social hanno rovinato la vita dei giocatori”

Sanchís e il mito della Quinta del Buitre: «A Madrid eravamo i Beatles, Butragueño era come Iglesias»

La Quinta del Buitre:  Emilio Butragueño, Miguel Pardeza, Manolo Sanchís, Míchel e Martín Vázquez. Una generazione immarcabile del calcio spagnolo ed europeo. Un fenomeno non solo sportivo, a Madrid. Ma quasi culturale, sociale, persino politico. Ne parla in un’intervista ad ABC Manolo Sanchís, quarto giocatore con il maggior numero di titoli nella storia del club. Non è un caso che alla domanda sull’eredità che ha lasciato la Quinta invece di parlare di pallone, Sanchìs inizia con la politica:

“Quando proviamo ad analizzare cosa è successo in quel momento nella società, vediamo un movimento che si è cristallizzato con l’ingresso del PSOE per la prima volta nel governo e l’intero tema culturale, sociale e musicale della Movida. Ci ha toccato nel calcio. Il nostro concetto di calcio ha cambiato il concetto tradizionale che esisteva, più legato alla furia. Qualcosa che sembrava impossibile, giocare bene a calcio senza pensare di diventare eroici, iniziò a essere considerato normale nel calcio spagnolo. Questa è stata la nostra eredità. La Quinta era più del calcio”.

“Il Bernabéu era pieno, venivano a vedere le partite del Castilla, la squadra B. Essendo figli delle giovanili occupavamo le prime pagine e le copertine dei giornali sportivi, ci riconoscevano nei ristoranti, dove la gente si alzava per fare una foto e chiacchierare con noi. La Quinta è stata un fenomeno di massa, come i Beatles. Ricordo che passeggiare con Butragueño per Madrid era come passeggiare con Julio Iglesias o con Camilo Sesto”

Sanchís dice che oggi i cellulari e i social hanno cambiato tutto:

“L’ambiente nel quale vive un calciatore oggi non è quello che avevamo ai nostri tempi. Quando sono arrivato in prima squadra, il rapporto con la stampa era individuale e quotidiano. Avevano accesso diretto al campo. La società e l’ambiente ti permettevano di essere normale. Oggi sono due le problematiche che condizionano fortemente il comportamento dei ragazzi. Il cellulare è una di queste. In qualsiasi momento della tua vita privata qualcuno può registrarti ed esporre quelle immagini al mondo intero, e una situazione privata diventa pubblica. E in secondo luogo, i social network. Fanno bene alla comunicazione ma sono anche un pericolo. I ragazzi di calcio di oggi hanno difficoltà a essere normali. La realtà stessa ti chiude e ti fa vedere l’aggressività dove potenzialmente c’è, ma non deve esserci per forza. Quando avevamo 19-20 anni uscivamo per Madrid e non pensavamo che dietro ogni saluto potesse esserci una cattiva intenzione. Oggi, se sei un calciatore famoso e vedi una persona con il cellulare puntato su di te, dici: “Mi sta registrando?” È una questione molto complicata”.

Ricorda il “trauma della semifinale della Coppa dei Campioni del 1988, persa contro il PSV (“alcuni di noi entrarono negli spogliatoi piangendo, i più giovani non si erano accorti che forse era l’ultima occasione per vincere la Coppa dei Campioni. Così è stato”) e dice che la “settima” Champions è il vero capolavoro della storia madrilena, non la “decima”: “Non era mai passato così tanto tempo senza vincere la Champions League e spero che non succeda mai più. Non c’è discussione. Capisco l’impatto del gol di Ramos, ma la settima non ha paragoni. È il titolo più importante nella storia di Madrid, non la decima”.

Dice anche che tra Haaland e Mbappé, prenderebba Haaland: “Alcune partite le sblocca solo il giocatore che fa gol. Noi avevamo Hugo Sanchez così”. E che il Real è il punto di arrivo di qualsiasi calciatore. Dopo è solo discesa:

Fuori da Madrid fa infinitamente freddo. Quando te ne vai la palla che ti è arrivava non ti arriva più, il contropiede non va più così veloce, il compagno di squadra non ti serve più e se prima richiamavano la tua attenzione perché sbagliavi, ora ti lasciano fare quello che vuoi. C’è un legame bidirezionale tra giocatore e club. Il club ovviamente ha beneficiato, ad esempio, di un giocatore eccellente come Cristiano per nove anni, ma quel giocatore non è mai stato così importante e non lo è mai più stato da allora, e non è un caso”.

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