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Mino Raiola il Don King bianco: muovo i sogni, faccio incazzare la gente

E’ morto portandosi dietro una carriera da leggenda: “il rozzo cameriere miliardario” che combatteva la Fifa a mani nude

Mino Raiola il Don King bianco: muovo i sogni, faccio incazzare la gente

Il “cameriere che diventò miliardario”, che per alcuni faceva il pizzaiolo ma che invece faceva proprio il cameriere, è morto a 54 anni. Dopo aver vinto tutto facendo vincere gli altri, guadagnando il possibile facendo guadagnare gli altri. Mino Raiola era “malato da tempo”, una formula stanca che non specifica mai quanto poco o tanto fosse quel tempo. Come se fosse quantificabile, misurabile. Lui, Raiola, il suo se l’era preso bruciandolo. Corto e chiatto che sembrava disegnato da uno sceneggiatore cattivo per aizzare lombrosianamente il moralismo della folla. Il super-agente “cattivo”, un po’ per tutti.

Chi ne osservava le mosse continuava a farlo galleggiando su una quota di pretesa superiorità, ostentando distanza sociale quasi per autodifesa. Anzi di più: alimentandone nel corso di una carriera ventennale una mitologia di marmo, quella del cafone arricchitosi alle spalle del sistema, coi suoi modi spicci e quell’aria da Don King bianco senza acconciature da scossa elettrica.

Mino Raiola l’ha fatta a tutti. S’è raccontato poco, ha giocato sulle narrazioni altrui, smentendo poco o nulla, andando al sodo dei rapporti personali diretti. Diventando l’indiscusso re di un mercato che nel 2019 ha registrato 17.896 trasferimenti internazionali completati, dei quali 3.558 (il 19,9%) hanno visto la presenza di almeno un intermediario. La Fifa, che dava questi numeri, ne aveva fatto il suo principale nemico. E lui l’aveva presa di petto, manco non fosse un’istituzione sovranazionale dal potere infinito. S’era messo a combatterla con una violenza comunicativa fuori dalla grazia delle diplomazie. Non ha fatto in tempo a vincere, stavolta.

Quelli che per mestiere guardano il dito e mai la luna lo hanno sempre atteso alla finestra, aizzando la litania dello stupore – “Ancora Raiola, sempre lui” – ad ogni trattativa chiusa. Sono gli stessi che tradussero il suo “parlo molte lingue, la peggiore è l’italiano” in “parla otto lingue, tutte male”, che sembra la stessa cosa ma no. E’ uno dei modi di scrivere il suo curriculum in contumacia. L’effetto cercato è l’emigrato rozzo alla Verdone, quello che torna in Italia a votare e gli rubano i pezzi dell’Alfasud in autostrada. Per contrasto: perché invece Raiola faceva affari con tutti, ed era temuto e rispettato da tutti. Altro che povero cristo.

Nel corso degli anni e nel filare degli aneddoti s’è creata una sorta di fenomenologia del mercante astuto che scambia giocatori come figurine e che rovina il bel calcio di una volta. Quando invece basterebbe leggere una delle pochissime interviste personali concesse da Raiola – a GQ nel 2016 – per rendersi conto che c’è più pallone vissuto nella sua vicenda che in tutta questa lotteria di fenomeni social che lui pure cavalca per lavoro.

Zeman una volta gli diede del “pezzo di merda”, come solo i veri amici sanno fare. Al suo Foggia consegna Bryan Roy: “Con quel genio di Casillo e con Zeman diventammo amici. Fumavamo, scherzavamo: «Zdenek, tu di calcio non capisci veramente un cazzo». Si ferma il campionato per le nazionali, partono tutti e parto anch’io. Resto due giorni ad Angri e poi torno da Zeman: «Ciao mister, come stai?». Silenzio. Gli offro una sigaretta. Lui è tirchissimo e accetta, ma non mi rivolge la parola: «Oh, ma che cazzo hai?». «Dove sei stato? Se lasci Foggia mi devi avvertire, non conosci le Tavole della Legge?». «Hai bevuto ieri sera, mister? Io non sono un calciatore e tu non sei Dio, faccio come voglio». «O sei nel gruppo e rispetti le regole o sei fuori», rispose. Ci pensai. Aveva ragione. Gli chiesi scusa. Gli ho voluto veramente bene. Ci siamo un po’ persi e mai veramente ripresi. Anni fa, con un colpo pazzesco, presi la procura di Nedved. Glielo dissi e sbiancò. Gli rodeva che avessi trovato un giocatore ceco e temeva che qualcuno pensasse: Zeman ci guadagna. Mi disse: «Lo devi lasciare stare», gli risposi di no. Gli promisi di portarlo alla Lazio. Un giorno, Zdenek mi telefonò in piena trattativa: «Tu sei pezzo di merda, non hai rispettato parola». Per un equivoco con l’intermediario, Nedved rischiava di andare al Psv. Risolsi la grana e Pavel approdò a Roma. Zeman ne decise arbitrariamente lo stipendio: «200 milioni per ragazzo sono più che sufficienti». Il resto della rosa guadagnava il quadruplo, litigammo e non ci parlammo per mesi. L’ingiustizia la sanò Zoff. Un signore. Come Cragnotti”.

Il Raiola che tutti conoscono tramandato dalla tradizione orale è quello del grande incontro della sua carriera: Zlatan Ibrahimovic, appena passato al Milan contando sul percorso 9 tappe che sono valse a lui 9 commissioni. Lo ha raccontato proprio Ibra:

“Avevamo un tavolo prenotato lì, ma non sapevo che tipo di persona cercare, immaginavo un tizio in completo gessato con un orologio d’oro ancora più grosso del mio. Ma che razza di individuo era quello che entrò dopo di me? In jeans e T-shirt Nike e con quella pancia enorme, sembrava uno dei Soprano. Dovrebbe essere un agente quella specie di gnomo ciccione? E quando ordinammo cosa credete, che arrivò un piattino di sushi con avocado e gamberetti? No, arrivò una valanga di roba, cibo per cinque, e lui divorò tutto come un dannato”.

Mino Raiola da Angri ad Haarlem:

“Vivevamo con uno zio panettiere e se toglie la parte criminale, la casetta sembrava il set del ‘Padrino’. Ragù, salami, spettacolini. Il periodo più felice della mia vita. I miei aprirono il ristorante Napoli, aperto 24 ore al giorno. Volevano rieducare gli olandesi: ‘Il cibo fa schifo, insegniamogli a mangiare’. Papà rientrava alle 4 del mattino, non lo vedevo mai, decisi di dargli una mano. Servivo ai tavoli e pulivo. Un giorno si presenta un cliente. E’ vestito male e sembra sporco. Non mi muovo. Sento la voce di papà: ‘Mino’. Non mi muovo. Ripete. Scatto. Era meglio non contraddirlo. Era dolce, ma sul lavoro si trasformava. Certe cose rimanevano tra noi. Se volava uno schiaffo, mi avvertiva: ‘Se ti lamenti con mamma ti do il resto’. Mi accorgo che quel cliente ha scelto la bottiglia più costosa e dico a papà: ‘Sei sicuro che possa pagare?’. Non alza neanche gli occhi dal giornale: ‘Mino esistono due tipi di clienti. Il cliente e il cliente. Stappa il Sassicaia e sbrigati’. Lo straccione era ricchissimo. Fu una lezione. Non giudico mai dalle apparenze, non mi vesto in giacca e cravatta come mi insegnò il mio professore di storia. In un ristorante cresci in fretta. Impari a prenderti le tue responsabilità. Oggi quando un affare fallisce non penso mai ‘è colpa degli altri’, ma sempre ‘è colpa mia’”.

Raiola, per dirne una, è quello che una volta propone a Ferlaino di far comprare l’Haarlem per far fare al Napoli quello che in Olanda fa l’Ajax: prendere a poco i talenti dalle giovanili, farli crescere e poi rivenderli a molto. Ferlaino dice no, e lui si mette in proprio.

Voi – noi – pensate che il calcio sia dei padroni, dei presidenti, degli azionisti di maggioranza. E invece no:

“In Italia il proprietario di un club non è proprietario di un cazzo. Possiede solo 60 stipendi da pagare. Se la squadra vince, è un eroe; se perde, è un coglione da impalare. Comandano i tifosi”.

E comandano i procuratori, ma anche questa è un’ovvietà. Comandava Raiola, più di tutti. Ma questo non lo avrebbe ammesso mai, in nessuna delle otto lingue che parlava male.

Il mio lavoro non è portare tutti qui o lì. Non sono un tassista. Gestisco gente di cui sono orgogliosissimo che non è mai uscita dalla provincia. Il mio mestiere è aiutare le persone a trovare la loro dimensione.  Ferguson dice di non aver mai odiato nessuno tranne me. E’ un grande complimento. Se non hai nemici non hai lavorato bene. Le cose normali le fanno tutti. Io muovo l’aria. Muovo i sogni. E ogni tanto faccio incazzare qualcuno”.

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