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Io me li immagino i patti scudetto

Lunghi tavoli sindacali di interminabili, intensi momenti di training autogeno, i senatori, i giornalisti che origliano, parole come “attributi”, “cazzimma” “non mollare”

Io me li immagino i patti scudetto
Colonia (Germania) 16/08/2020 - Final Eight Europa League / Siviglia-Manchester United / foto Getty/Uefa/Image Sport nella foto: spogliatoio

La forza immaginifica più prolifica generata dal Napoli negli ultimi anni è stata la leggenda dei numerosi patti scudetto stretti nello spogliatoio.

Io me li immagino come lunghi tavoli sindacali di interminabili e meticolose trattative, stanze sature di fumo di sigarette, gente carica di faldoni, di ponderosi almanacchi, schermi dove si discettano partite, con qualche novello Luciano Lama che controlla i punti di scala mobile.

Mi immagino qualcuno a raccogliere la lista dei propositi, filtrata e vagliata dal gruppo, da stampare e appiccicare al muro con lo scotch adesivo trasparente fornito dalla vicepresidenza, orgogliosa di quanto scotch trasparente ci sia oggi nelle cancellerie della società dove un tempo non c’erano né palloni né scotch: da domani non mangio più di centocinquanta grammi di mozzarella alla settimana; da domani basta con Instagram; da domani se mi lanci lungo e la palla finisce sugli spalti ti faccio il pollice all’insù per caricarti e farti capire che ce la possiamo fare.

Me li immagino come intensi momenti di training autogeno in cui gli allenatori aiutano i ragazzi a modellare il proprio destino (forte): motti che nascono e si formano attorno a parole che muovono gli animi – “attributi”, “cazzimma”, “assalto al palazzo”, “non mollare” -, poi si intrecciano e si trasformano in ulteriori evocative massime da cui gli autori traggono ulteriore profondo orgoglio  – “non mollare gli attributi”, “assalire il palazzo con cazzimma”.

Mi immagino i ruolini di marcia stilati e condivisi dal gruppo: ci servono cinque finali, nove finali, undici finali; ci servono una finale e tre semifinali, sei finali e due semifinali, otto finali e un ottavo fallito ma a testa alta. E poi fare conto che siano proprio finali, alzarsi la mattina con la convinzione (convinzione) che la sera c’è una finale. Chiamarsi tra compagni e dire: “Ehi, allora sei pronto per la finale?”, parlare con la fidanzata e dire: “Cara, stasera non ceno a casa, ho una finale” e così via. Convinti, insomma.

Mi immagino il tifo organizzato. Si riuniscono, tutti e quindici, a casa di uno di loro. A volte c’è la fortuna di un evento, durante l’implementazione del patto scudetto, che facilita la pianificazione. Per esempio: muore un cantante, metti la canzone prima della partita. Muore un attore: metti la foto prima della partita. Muore uno scrittore: più difficile, però metti una frase prima della partita. Purtroppo le persone non muoiono con cadenza sufficiente a colmare i gap che portano allo scudetto.

Mi immagino i senatori. I senatori, nello spogliatoio, me li immagino sempre con i pantaloncini, la camouflage e le parrucche tipo Camera dei Lord inglese.  Consigliano i più giovani. Simboleggiano la tradizione e la continuità. Sono portavoce dei sentimenti e le sensazioni. E l’allenatore che va in consultazione con loro, a volte Mattarella altre Oscar Luigi Scalfaro, per capire le maggioranze e vidimare i patti.

Poi mi immagino i giornalisti, accucciati fuori alla porta. Che origliano. Si chiedono a vicenda se il patto è stilato. Poi uno di loro dice che sì, il patto c’è. Il titolo è pronto: “Patto scudetto nello spogliatoio. I giocatori hanno detto che…”.

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