Longhi: «Maradona aveva un’umiltà senza pari. È stato santo e peccatore. A Napoli ha fatto tanta beneficenza»
A Il Giornale: «Mogol non sapeva niente di calcio, ma lo appassionai tanto che creò la Nazionale Cantanti. Dissi alla Nannini che era meglio se cambiava mestiere»

Il Giornale intervista Bruno Longhi. Pioniere delle radio private, ha avuto una lunga carriera da telecronista sportivo. Maradona lo considerava, con Minà, «il miglior giornalista del mondo».
«Papà faceva il salumiere a Casorate Primo, dov’era sfollato per la guerra. Diceva sempre: tu devi fare il dottore commercialista. C’ho anche provato in Bocconi, ma la matematica non era fatta per me. Come tutti i bambini sognavo di fare il calciatore. Anzi: ero sicuro di diventarlo. Lo scrissi in un tema in quinta elementare: raccontai il mio debutto a San Siro, il mio gol. È lì che ho iniziato a fare il cronista sportivo».
A San Siro debuttò a 11 anni, lo racconta.
«In una delle partitelle che ai tempi i ragazzini del Nucleo addestramento Gioco Calcio, giocavano prima dei match di campionato. Fu un disastro. Toccai due palloni. Poi passai alle giovanili dell’Inter, ma fu peggio. Andavo alle medie e facevo tre giorni di lezione al pomeriggio e tre giorni alla mattina. Allenamenti a singhiozzo, un giorno sì e uno no. Provai alla Solbiatese».
Andò male anche lì.
«Avevo cominciato a suonare in un complesso musicale: sabato notte facevo le ore piccole e la domenica mattina non stavo in piedi».
Racconta di aver consigliato alla Nannini di lasciar perdere la carriera da cantante.
«Con Lavezzi avevamo fondato un gruppo: i Flora, Fauna e Cemento. Si presentò questa ragazzina per un provino, suonava i pezzi di Carole King, ma era, come si dice in gergo, completamente squadrata, cioè non andava a tempo. Le dissi: Gianna, dammi retta, è meglio che cambi mestiere…».
Si rividero durante un’ospitata in radio, quando lei era diventata una popolare rockstar e lui un telecronista affermato.
«Mi disse: ma tu sei quello che mi ha detto di cambiare mestiere? E io ridendo: esatto, ci ho visto proprio lungo…».
Parla di Mogol.
«Ha sempre avuto un intuito pazzesco. Si andava da lui, al Dosso, in Brianza, con quattro o cinque motivi musicali. Uno o due gli davano l’ispirazione e lavorava su quelli. A quei tempi c’era il bar del lunedì, una specie di bar sport, con quelli della casa discografica. Mogol si affacciava alla sua maniera, rubando la sigaretta dalla bocca di uno che stava fumando, e chiedeva ma com’è questo calcio? Bello? Non sapeva nulla, al contrario di suo padre Mariano Rapetti che era un grande milanista. Così gli spiegai, lo portai a San Siro, gli feci da nave scuola».
Fu così che a Mogol venne l’idea della Nazionale cantanti.
«Inventò un torneo di calcio con tutti quelli della Numero Uno: Battisti faceva il portiere, Mogol il terzino, c’erano Tony Renis, Adriano Pappalardo, la Formula 3. Poi arrivarono Gianni Morandi, Don Backy, Fausto Leali. Una volta contro la nazionale giornalisti finì persino a botte con Sandro Giacobbe e Riccardo Fogli a menare come fabbri».
Su Lucio Battisti, suo vicino di casa.
«Ma il mio rapporto con lui nasce negli uffici della Numero Uno, manco sapevo che abitasse vicino a me. Era molto geloso della propria privacy e difficilmente ti dava confidenza. La mattina arrivava con la Duetto e il foulard rosso, io salutavo e lui manco mi rispondeva. Poi si creò una specie di alchimia tra noi due e tutto cambiò. Ridevamo sempre. Mi chiamava “De Longhis”. Poi c’era il nostro rito del caffè…».
Cioè?
«Offrivo sempre io. Una volta mi disse: stavolta lascia stare. Pagò il suo caffè ma non il mio…».
Continua:
«Avevamo anche un codice per sentirci al telefono: uno squillo poi appendi, uno squillo poi appendi e al terzo lui rispondeva. Serviva a seminare gli scocciatori».
Longhi è di fede interista.
«Nella mia famiglia lo erano tutti e tutti sfegatati. Una volta, avevo sei anni, papà mi regala mille lire per comprare un completino di calcio, maglia, calzoncini e calzettoni, in vendita in un negozietto. Ne ha uno della Juventus e io prendo quello. Papà mi mandò a restituirlo subito».
Maradona lo definì il Maradona dei giornalisti:
«Diego era duro nei suoi principi ma aveva un’umiltà senza pari. Ha avuto due vite, santo e peccatore. Ma a Napoli ha fatto tanta beneficenza e non voleva che si sapesse».
Indica il suo successore tra i telecronisti moderni.
«Sono tutti più bravi di quelli della mia età e hanno gli strumenti per informarsi che noi non avevamo. Mi piace Maurizio Compagnoni di Sky. Magari è meno tecnico degli altri ma ha una voce che dà importanza all’evento».