ilNapolista

Il nostro meglio per l’Ucraina è scrivere “Peace”, piccolino, tra i numeri dei corner dei match di Serie A

L’Italia vuole la pace e passare i weekend a parlare degli striscioni di merda, comminando le solite salatissime multe. In Italia è tutto un dialogo tra fessi

Il nostro meglio per l’Ucraina è scrivere “Peace”, piccolino, tra i numeri dei corner dei match di Serie A
Kiev 04/03/2022 - guerra in Ucraina / foto Imago/Image nella foto: profughi ONLY ITALY

Partiamo dalla fine. E la fine è lo striscione e ciò che potrebbe rappresentare. Non sono sicuro sia stato l’unico giornale, ma di sicuro il Napolista ha fatto correttamente notare l’evidenza che ormai sfugge ai più, ovvero che queste frasi in rima baciata che ammiriamo negli stadi sono da tempo immemore un dialogo tra fessi di decurtisiana memoria. Fessi che scrivono per fessi che ascoltano e ribattono. Poiché lo striscione non è offensivo per Napoli o i Napoletani – visto che, per fortuna, a morire sotto le bombe non sono i cittadini di Fuorigrotta, Secondigliano o Posillipo. Quello striscione è piuttosto orrendo per gli uomini, le donne e i bambini che sono stati martoriati da missili anche mentre si giocava una partita, alcune centinaia di chilometri più in là.

Il dialogo tra fessi ha, infatti, come precipua precondizione la sindrome di accerchiamento, quella che poi si declina, a seconda dei contesti, in modi differenti: il tradizionalismo, il nazionalismo, il regionalismo, il localismo, i sapori della terra, il DNA imperialistico, la storia del bidet e via cantando. Tutti, però, accomunati da un medesimo denominatore: per gli altri, quelli fuori dal gruppo, i non ultras, i non tifosi, i non veronesi o non napoletani, insomma per gli immigrati, meglio mettere le quote. Non si sa mai.

Non fatene una colpa al calcio italiano, che è già pressoché sparito. I dialoghi tra fessi sono il tessuto connettivo della società italiana, dal bar sport alle elite culturali, passando per i giornalisti locali con ambizioni frustrate nazionali e quelli nazionali che “se solo sapessero chi siamo” ma nessuno lo sa. L’Italia è tutta sudizzata, da questo punto di vista. E’ un unico blocco che è finito nella Cassa del Mezzogiorno, che è sempre un filino meglio di quella da morto, sempre di decurtisiana memoria.

Anche quando si scherza sui morti, infatti, ma quelli veri – non quelli visti nelle serie tv sulle famose organizzazioni criminali, su cui si sono scritti fiumi di parole, pro o contro, sempre sulla medesima lunghezza d’onda dei dialoghi di cui sopra – la prima reazione italiana, veronese o napoletana è: questi ce l’hanno con me. Ciò è da attribuirsi, se non esclusivamente, di sicuro anche alla pluridecennale sottocultura del “nessuno sta peggio di me” di cui il Belpaese è totalmente imbevuto.

Quando io incontro amici e conoscenti napoletani, uno dei primi tre argomenti di discussione sono le buche stradali in città. I napoletani le portano come vessillo, a mo’ di ostensorio. Si può parlare di tutto, dalle crisi in Medioriente alle guerre nello Yemen, il napoletano ha le buche. E nessuno, nessuno può capire più di lui cosa significhi avere una buca, una voragine, un cratere vulcanico sotto casa, e l’amministrazione comunale silente.

Quando la buonanima di Benitez iniziò a parlare d’Europa, millenni or sono, lo fece aprendo la discussione sulla normalità cittadina. In pratica disse: sì, ci sono problemi, ma non mi sembra ce ne siano più che altrove. Questo fu lo stigma. A Napoli si sta male. In Italia si sta male. Ci sono le voragini per strada. E’ tutto un miracolo. E giù discorsi tra fessi. Finché lo spagnolo se ne andò, e amen. E noi siamo, ad alcuni anni di distanza, a ritenere razzista contro i napoletani uno striscione di merda che gioca sulle bombe che piovono altrove e dietro il quale giace a riposo la banale realtà: carissimi tutti, a Napoli non si sta troppo male, neanche in Italia. Tant’è vero che ci sono vagonate, navi stracolme, auto stracariche o semplicemente file di profughi, da ogni parte del mondo, che cercano di entrare a Napoli, in Italia, in Europa, per non rimetterci la pelle, e poter avere l’agio di spendere domeniche e lunedì a dialogare tra fessi, che e’ certo meglio che morire in mezzo al mare a largo di Malta o sulla strada per il confine polacco. Ci sono stati giovani che hanno fatto una rivoluzione – anche a Kiev, basta vedere Winter of fire su Neflix – per entrarci, in Europa, quella che poi sta sulle scatole a tutti, nel calcio e fuori.

Facendo un altro passo a ritroso: immagino che spesso, chi ha la mia età, si sarà chiesto come fosse stato possibile, ad esempio negli anni sessanta, leggere dei carrarmati sovietici che entravano in Cecoslovacchia e aprire un dibattito interno, in Italia, dentro o tra partiti, nella società civile, su quale equidistanza usare. Come è possibile che, quando si muovono i cingolati, gli italiani si riuniscano a parlare? Oggi, con quasi mezzo secolo sulle mie spalle, la cronaca si incarica di spiegarmi la storia. Così come oggi a fare i milleuno distinguo, a dire che ne’ con l’occidente ne’ con l’oriente, ci sono in TV e sui giornali gli stessi identici che hanno fatto i milleuno distinguo su vaccini e Covid, all’epoca i professionisti del dibattito parlavano tra loro con il tipico cartellino fuori tempo massimo di chi non ha mai letto la pagina del Qoelet – c’è un tempo per ogni cosa. Peggio che arrivare tardi è utilizzare male il proprio tempo a disposizione. Oggi i cingolati entrano in Ucraina ed il meglio che sappiamo fare è scrivere “Peace” in sovrimpressione durante le avvincenti partite della Serie A, piccolino, tra i numeri di calci d’angolo per squadra. L’Italia vuole la pace e passare i weekend a parlare degli striscioni razzisti, comminando le solite salatissime multe.

Pochissimi ascoltano Shevchenko, o il nostro De Zerbi. Tanto per dire. Chi c’è stato. Chi c’è. Noi ci affidiamo ai nostri filosofi locali, magari reduci dalle battaglie di libertà contro le mascherine, ultimo scongiurato pericolo nazista. O agli scrittori dei libri che si regalano le zie a Natale, che rilanciano commenti sferzanti sugli striscioni e tanti interessantissimi distinguo.

Eppure c’è sempre stato chi, oggi come in ogni tempo, sotto le bombe ci è finito e ha raccontato. Anni fa c’era Iosif Brodskij, ad esempio, che andava in esilio mentre in Italia si aprivano i dibattiti interni e si determinavano le collocazioni delle correnti politiche. Qui ricorda i propri genitori, di quanto, quando muoiono e non puoi neppure incontrarli, capisci che il loro vivere con l’obbligo di scegliere tra una strada o l’altra, e non tra mille, sia stato molto più coraggioso e titanico del nostro.

Brodskij, che forse non leggeva gli striscioni. Ma un giorno scrisse, “Comunque, se vogliamo avere una parte più importante, la parte dell’uomo libero, allora dobbiamo essere capaci di accettare – o almeno di imitare – il modo in cui un uomo libero è sconfitto. Un uomo libero, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno”.

Certo, difficile vederlo alla guida della Federcalcio. Ma come allenatore del Napoli non sarebbe stato male.

ilnapolista © riproduzione riservata