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La resa di Dal Pino certifica che per il calcio italiano non c’è speranza

L’ennesima disfatta del calcio italiano: i sedicenti capitani d’industria si sono dimostrati repellenti ai manager e all’imprenditorialità

La resa di Dal Pino certifica che per il calcio italiano non c’è speranza
Mg Torino 01/08/2020 - campionato di calcio serie A / Juventus-Roma / foto Matteo Gribaudi/Image Sport nella foto: Paolo Dal Pino

Della lettera di Dal Pino ai 20 apostoli della Lega bisognerebbe fare la versione in prosa. Tale è la fatica che grondano quelle poche e accorte frasi che il presidente dimissionario lascia in calce alla sua avventura da Presidente della scalcagnata Serie A. Il “me ne vado in California con la mia famiglia” misura il distacco in termini spaziali: il far west piuttosto che restare un minuto di più ad arginare i vari Lotito, De Laurentiis, Ferrero, Cairo. Ma soprattutto il “ci ho provato”:

«Ho provato a proporre idee e innovazione in un contesto resistente al cambiamento» 

Le dimissioni sono il naturale proseguimento del concetto: ci ho provato, e non ci sono riuscito. Tradisce una resa, e anche il buongusto lasciato al non-detto: provateci voi ad aver a che fare con questi qui. Il “contesto resistente al cambiamento” racchiude in una formulazione affilata tutto l’avvilimento di chi s’è trovato a dirigere un’accozzaglia di sedicenti capitani d’industria (la fantomatica Industra Calcio, quella che fa i debiti, dà la colpa ai virus e chiede gli aiuti di Stato mentre sperpera in procure e scommesse sportive) senza poterlo fare davvero. Un biennio nel quale Dal Pino ha visto accorciare l’orizzonte della sua visione fino al tinello, in via Rosellini. In quelle stanze, tra mille discussioni inerti, s’è consumata la voglia del manager di dare un metodo al governo del calcio italiano. Vana pur nella “strettissima unità di intenti con la Figc” che rivendica nella lettera: ringrazia il Presidente Federale Gabriele Gravina, “gentiluomo” lo definisce.

Questa è la disfatta, l’ennesima, del calcio italiano. Il “contesto resistente al cambiamento” s’è dimostrato repellente all’imprenditorialità, ad una idea di architettura manageriale che – con tutti i limiti che il biennio ha evidenziato – era l’espressione di una piccola rivoluzione borghese in seno alla Lega: Dal Pino fu eletto a maggioranza l’8 gennaio del 2020 con i voti contrari di Inter, Juventus e di Cairo.

Dal Pino è rimbalzato su un muro di gomma, lui che nella vera Industria aveva disegnato il curriculum: Mondadori, Gruppo Repubblica, Telecom. Aveva a che fare con Berlusconi, De Benedetti, Geronzi, Tronchetti Provera. Tra Lotito e il Viperetta è durato due anni. Quando gli hanno affondato il progetto che con l’ingresso dei Fondi prevedeva un’ondata di liquidità (l’operazione che poi ha portato a termine la Liga, tra mille tribolazioni) ha capito che non c’era possibilità di redenzione. Avrebbe potuto – dovuto – dimettersi allora. Gli va riconosciuto che ha accettato questo incarico per spirito di servizio, avrebbe voluto farlo gratis e alla fine ha accettato un terzo dello stipendio pattuito. Quisquilie per uno come lui che si muove a proprio agio nei cda di grandi industrie internazionali.

Le modalità della capitolazione sono eloquenti. Cede per consunzione. Chiude travolto da una disputa interna per adeguare lo statuto della Lega ai principi informatori del Coni. Una mera questione sintattica, dopo aver incassato invece troppe sconfitte sostanziali. Ma se Dal Pino se ne va in California, la Serie A resta impantanata nelle sue beghe ammuffite. Di chi sia il fallimento è abbastanza evidente.

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