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L’ultima prurigine del cavernicolo: i rabdomanti di calciatori gay

Da Evra a Cavallo, continuano gli avvistamenti. Li cercano e li contano manco fossero evasori fiscali. Mentre il mondo va avanti e il calcio non se ne accorge

L’ultima prurigine del cavernicolo: i rabdomanti di calciatori gay
Milano - corteo gay pride / foto Andrea Ninni/Image nella foto: corteo gay pride

Ogni tanto, con cadenza disarmante, spunta l’intervista ad un ex calciatore, un allenatore, un insider qualunque che “rivela” al mondo attonito: “Ci sono i gay anche nel calcio”. Lo scatto fisso del giornalismo sul tema è imbarazzante: il titolo in teoria punta alla prurigine del cavernicolo, stupito dalla possibilità che degli omosessuali si aggirino negli spogliatoi abitati da maschi veri. Nella riproduzione sistematica della stessa identica “notizia” dal 1990 – l’anno a cui si fa risalire il primo vero scandalo: il coming out forzato di Fashanu con annesso dramma – il lettore medio sbadiglia e sfoglia oltre. Clicca altrove. In generale se ne fotte.

Ma niente: l’australiano Cavallo parla delle sue inclinazioni sessuali? Ed ecco il primato: è il primo giocatore in attività! Sicché qualche mese dopo lo intervisti di nuovo, come si fa per i richiami dei vaccini, per documentare il fatto che sia sopravvissuto. E lui ripete: ci sono almeno due o tre gay in ogni squadra. Confermando così le cifre dettate da Evra in questi giorni passati a promuovere la sua autobiografia: “Ci sono almeno 2 omosessuali in ogni spogliatoio”. Non sono i primi, sono appena gli ultimi. È una serie: Football Gay Hunters. Rabdomanti di omosessuali, nell’edizione italiana.

È incluso nel plot l’occhiolino. È la stampa, bellezza, che si dà di gomito: anche oggi abbiamo portato a casa il titolo. Come se la presenza nel mondo del pallone del sesso portasse con sé, senza possibilità di redenzione, della morbosità. Il solo fatto di ribadire il concetto esplicita un giudizio: no, i gay in uno spogliatoio frequentato solo da maschi? Non è normale. Se lo fosse non ci sarebbe niente da svelare, non ci sarebbe l’intervista, la notizia, il titolo.

Poiché nel frattempo il mondo ha questo vizio di evolvere, e il pallone di rotolargli appresso sempre in ritardo, ora si è passati a dare il conto: ce ne sono due per squadra, tre. Nelle squadre più “sfortunate” magari saranno quattro o cinque, chissà. Ma il sottinteso è sempre il peccato. Come se il fatto di essere attratti fisicamente dallo stesso sesso fosse una deviazione opaca. Vanno indicizzati, manco fossero evasori fiscali.

Ha un po’ ragione lo stesso Evra:

Nel calcio non puoi mostrare debolezze, non puoi mostrare differenze, altrimenti sembri vulnerabile. C’è una mascolinità tossica. Soprattutto perché il vocabolario della guerra viene costantemente utilizzato, confrontando le partite con le battaglie”.

Ma se rileggete bene questo assunto capirete anche perché è parte del problema: i gay non vanno in guerra? Non sono adatti a combattere, sono troppo “femminucce”?

È vero: il calcio usa ancora un vestito tribale, zeppo di penose resistenze anche nella sua narrazione. Nel 2022 c’è ancora gente che blatera di “attributi” perché dire “palle” no, è scortese. È lo stesso tranello mentale: se la misura della forza è un testicolo, allora i gay come sopravvivono? E allora, tiriamoli via da lì, salviamoli: sono due, tre. Serve un censimento?

Invece di inseguire la segnalazione, l’avvistamento, dichiarando irreparabilmente di ritenerli ancora animali rari in ambiente ostile, forse sarebbe il caso – semplicemente – di fottersene. Ché il calcio ha ben altri motivi per farsi ridicolo al mondo.

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