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Il falso mito di Insigne e Dybala leader, basta col mito del capitano

Inutile scandalizzarsi per i loro comportamenti, oggi il ruolo non è più un’investitura dello spogliatoio ma un investimento d’immagine della società

Il falso mito di Insigne e Dybala leader, basta col mito del capitano
Torino 02/11/2021 - Champions League / Juventus-Zenit / foto Imago/Image Sport nella foto: esultanza gol Paulo Dybala

“Oh capitano mio capitano”, e tutti in piedi sugli spalti come sui banchi dell’Attimo fuggente recitando – per lo più inconsapevolmente – i versi di Walt Whitman. “C’è solo un capitano” nella traduzione romantica da stadio. Come se nel frattempo il mondo lì fuori (ma anche lì dentro, nel calcio) non fosse cambiato tanto da ridurre il simbolo del trascinatore, dell’uomo in più, del carismatico sindacalista di spogliatoio, a un Dybala qualunque.

Non c’è più un capitano da mo. Ce ne sono una miriade: precari, posticci, imposti, a termine. La fascia al braccio s’è persa di significato fino a diventare una specie di personalissimo passaporto diplomatico: puoi abbaiare all’arbitro senza farti ammonire. E questo è quanto.

Per cui fa un po’ tenerezza l’opinionismo dell’indignazione che ancora ci crede. Che mitizza una posizione di rendita. Leggiamo di Dybala che non s’è comportato da capitano, di Insigne che non se ne va da capitano, come di Icardi capitano ribelle ai tempi dell’Inter. Ce ne sono anche altri di esempi più o meno noti. Il presente è fatto così: Dybala segna, poi lancia un’occhiataccia alla tribuna d’onore, dove albergano i dirigenti che vogliono rinnovargli il contratto a cifre che il suddetto non ritiene congrue. Quando la stessa promozione a capitano arrivava a definizione d’una trattativa lunga e faticosa: il club annunciava simbolicamente al giocatore la sua centralità nel progetto. Un bonus. Il romanticismo è andato a farsi benedire: ora ci sono i capitani d’azienda.

E così Insigne che va a firmare il suo nuovo contratto col Toronto a poche ore da Juventus-Napoli, autopromuovendosi in maniera avvilente mentre ringrazia tutti con la sobrietà del fratello di Parascandolo. Un capitano, nell’accezione classica, non avrebbe mai reso uno sfregio del genere alla squadra che rappresenta. Anche al netto del suo essere napoletano, che da queste parti rappresenta un’aggravante, un fardello d’infamia ulteriore. A Icardi, per simili destini contrattuali la fascia fu tolta con un gesto plateale, quasi come un guanto lasciato cadere in segno di sfida: il galateo del pallone dà e toglie con la stessa inutile superficialità. Cosa s’aspettavano ad Appiano Gentile da uno come Icardi? Che diventasse Javier Zanetti?

A Aubameyang l’Arsenal ha strappato la fascia con tanto di comunicato ufficiale perché “se non rispetta lui per primo le regole è finita”. Il punto è che non era mai davvero cominciata.

Gerrard o Baresi, Raul o Puyol, Maldini o Totti, Lampard o Beckenbauer, per non scavare ulteriormente nella leggenda, non esistono più. Fanno parte di un’altra storia, in cui il mercato era appendice d’altre qualità. Oggi il capitano è una posizione d’immagine, serve a scandire la comunicazione multicanale, a spremere un volto spendibile da piazzare in copertina. Non è più la “persona”. E’ il fuoriclasse. Non è richiesta calma e diplomazia, leadership ed autorità. Basta, spesso, essere quello più bravo, più appariscente. Un tempo le due cose potevano coincidere (Maradona, Platini…), oggi non serve. Non è più un’investitura, ma un investimento.

E non c’è niente di strano, in fondo. Perché nel frattempo il calcio ha cambiato struttura. Non c’è più cartellino, c’è l’ingaggio. Le “bandiere” (altra resistenza retorica scaduta come uno yogurt) erano figlie di un’altra economia. Ora i procuratori imperversano trattando all’asta, e sopportano l’anima che si accasa per questioni affettive come un fantasma dal passato. E’ fisiologia commerciale. Il capitano moderno è perfettamente aderente al nuovo sistema: è un vuoto a perdere.

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