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L’Italia si sta accorgendo di Simone Inzaghi l’allenatore démodé detestato dagli esteti

Non è un pasdaran del possesso palla e gioca in verticale: orrore. Senza Lukaku e Hakimi, non sta facendo rimpiangere Conte. Ha rigenerato Calhanoglu, senza di lui Luis Alberto si è perduto

L’Italia si sta accorgendo di Simone Inzaghi l’allenatore démodé detestato dagli esteti
Db Milano 24/10/2021 - campionato di calcio serie A / Inter-Juventus / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Simone Inzaghi

Simone Inzaghi è un allenatore controcorrente. È nato nell’epoca sbagliata. Succede. È un po’ come essere stati vegetariani negli anni Ottanta, le persone chiamavano la polizia. Oggi ti stendono i tappeti rossi; se mangi carne, inorridiscono. La vita, si sa, è anche questione di fortuna. E di tempi. Simone Inzaghi è un uomo fuori dal suo tempo. Nel suo calcio non trovano dimora concetti che sono considerati dogmi, quali l’inutile possesso palla, quei ghirigori difensivi che una volta su tre portano al gol avversario: la chiamano costruzione dal basso o da dietro. Orrore: Simone Inzaghi vuole che le sue squadre vadano in porta nel minor tempo possibile e col minor numero di tocchi possibile. È un provocatore, un sobillatore, un sovversivo. Per lui il gol è valido anche se l’azione si snoda con soli quattro tocchi dal portiere all’attaccante. Roba da ritiro del patentino.

Simone Inzaghi è un signor allenatore. Ed è assurdo che ancora oggi in tanti mostrino stupore. Come se non fosse bastato quel che ha mostrato alla guida della Lazio. In quattro stagioni ha vinto due supercoppe italiane, una Coppa Italia, ha a lungo accarezzato il sogno dello scudetto nell’anno del Covid. Sempre con una formazione allestita con sapiente senso dello scouting ma allo stesso tempo con pochi soldi investiti. Pochissimi.

I pezzi forti della campagna acquisti della sua ultima stagione con Lotito sono stati Muriqi, Akpa Akpro e Fares. L’anno prima Lazzari (che è un buon giocatore), Vavro e l’allora giovanissimo Pedro Neto. La stagione precedente, grazie ai soldi incassati per la cessione di Felipe Anderson al West Ham, ha potuto spendere qualche spicciolo in più e sono arrivati Correa, Acerbi e Berisha. Ha rigenerato Lucas Leiva che era stato scaricato dal Liverpool.

È un allenatore abituato a fare la spesa al discount. E con la spesa ha preparato quasi sempre piatti impensabili con quegli ingredienti. La panchina lunga non ha mai saputo che cosa fosse. Ha portato Luis Alberto a valere quasi cinquanta milioni di euro. Giocatore che oggi o sta in panchina oppure vaga più o meno senza metà per il campo.

Il suo è un calcio eretico. La sua Lazio è stata una squadra che nella partita secca avrebbe potuto vincere con chiunque. Nella Supercoppa di fine 2019 fece letteralmente a pezzi la Juventus di Sarri. Ha portato la squadra di Lotito agli ottavi di Champions e ai quarti di finale di Europa League. Quarti perduti in una sciagurata partita di ritorno contro il Salisburgo quando, in sei minuti incassò tre gol e buttò via una qualificazione che sembrava comoda. Tutti sbagliano.

È arrivato all’Inter con una eredità pesante: quella di Antonio Conte. E soprattutto alla guida di una squadra che a detta di tutti aveva imboccato il viale del ridimensionamento. Via Lukaku l’assoluto protagonista dello scudetto. Via Hakimi venduto a peso d’oro al Psg. Addio a Eriksen fermato da vicende ben più serie di quelle pallonare. Ancora una volta alle prese con un calciomercato piuttosto esangue alla voce entrate, soprattutto se paragonato a quelli del biennio Conte. Sono arrivati l’anziano Dzeko, il suo Correa, Dumfries che è il corrispettivo da Discount di Hakimi, Di Marco di rientro dal Verona, Calhanoglu. Nulla di neanche lontanamente paragonabile allo shopping precedente: Lukaku, Hakimi, Barella, Kolarov, Vidal, Sanchez, Sensi, Young, Moses, lo stesso Lazaro.

Eppure dai suoi nuovi acquisti Inzaghi ha estratto il meglio. L’esempio più rappresentativo è certamente Calhanoglu che fino allo scorso anno potevamo definire un giocatore nella norma, raramente capace di accendersi e illuminare. Al Milan il turco ha giocato una sola stagione veramente buona, quella 2019-2020. Una su quattro. Sono pochi i tifosi rossoneri che si sono disperati per il suo addio a costo zero. L’idea di fondo era quella di un nuovo pacco rifilato ai cugini, dopo quelli indimenticabili di Guglielminpietro e Coco per Pirlo e Seedorf.

E invece Calanhoglu è rinato con Inzaghi. È un altro giocatore. Ha un’altra condizione atletica, ha un’altra testa. Incide. È un trascinatore. È da questi particolari che si giudica un allenatore. Da quanto riesce a far rendere i suoi. Come ha detto Mourinho l’altro giorno in conferenza stampa: «Da piccolo mi hanno insegnato che non si può dire nulla a chi sta dando il massimo». Ecco, con Simone Inzaghi non sai mai quale possa essere il massimo di un calciatore. Vale per Calhanoglu, vale per Luis Alberto. E tanti altri.

L’Inter è la squadra che ha segnato più gol in Serie A: 39. È la squadra col più alto numero di tiri in porta: 100, la seconda è il Napoli con 83. È la squadra con più cross, la seconda per numero di corner. Non è la squadra con più possesso palla. Negli scontri diretti contro Napoli, Milan, Juventus, Lazio, non ha mai avuto più del 49%. Eppure sono partite che l’Inter o ha vinto (contro il Napoli, col 45% di possesso palla) oppure avrebbe meritato di vincere o ha tenuto a lungo in pugno (la Lazio, ad esempio).

Ha un punto in più in classifica rispetto all’Inter di Conte. E ha riportato i nerazzurri agli ottavi di Champions con un turno di anticipo. Non male per un allenatore considerato non all’avanguardia. Da non invitare agli aperitivi organizzati da chi si illude di capire di calcio. Lui intanto vince. E costringe Lotito a far finta di essersi innamorato del suo successore per non finire a parlare da solo e a chiedere pareti di gomma per le sue abitazioni.

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