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La tragedia è che l’uomo della mano in culo corrisponde all’idea del consumatore medio di calcio

È il target imperante. Il prodotto sport in tv è pensato per questo genere di tipo umano e infatti dobbiamo sorbirci un prodotto scadente e ammiccante

La tragedia è che l’uomo della mano in culo corrisponde all’idea del consumatore medio di calcio

La pietra tombale sulla questione “pacca sul culo in diretta tv” – ormai in scadenza per esaurimento dell’indignazione – l’ha messa con involontaria comicità la compagna del molestatore reo confesso: “Andry è dolce ed è un coccolone rispettoso. Un simpatico burlone. E’ sempre disponibile a dare una mano quando qualcuno ne ha bisogno”.

Evidentemente Greta Beccaglia non ne sentiva proprio il bisogno, Andry. Potremmo chiuderla qui, se non fosse che in quanto maschi e consumatori di sport (attivi e passivi) ci sentiamo investiti d’un ruolo nel quale non solo facciamo fatica a ritrovarci, ma che in verità ci fa anche un po’ schifo: il troglodita con la bava alla bocca che slinguazza il televisore come Fantozzi, spiaggiato su un divano inebetito dalla procacità di Diletta Leotta mentre ascolta in sottofondo le discettazioni dei Caressa e dei Piccinini. L’uomo medio(cre) che davanti ad una tetta perde il senno, bestemmia contro gli arbitri e l’eventuale faziosità del commentatore di turno e che – tra un rutto e l’altro – ride sguaiato dei capannelli dei tifosi che bullizzano le inviate fuori dagli stadi.

Un prototipo d’essere subumano da decubito contrabbandato dalla mistificazione dei media come predominante. Un target commerciale abusato, reso realistico non solo nel racconto che se ne fa, ma proprio adeguando a lui il livello del prodotto. Per cui lo spot che gira nell’intervallo della partita ritrae puntuale Diletta Leotta che apre l’uscio di casa – stupita – ad un esercito di manutentori e manovali, in un richiamo sgamato ad atmosfere soft-porno. Un cane deficiente che non riesce a mordersi la coda; nel suo girotondo ad oltranza c’è il cortocircuito.

Il signor Andry-simpatico-burlone siamo noi, ci dicono. Ce lo rinfacciano, col dito puntato. Noi ci voltiamo di qua e di là, non ce ne facciamo una ragione: ma chi, io? Dici a me? Sì, a quanto pare dicono proprio a noi, che ci ostiniamo ad usare il plurale maiestatis perché siamo una moltitudine. Evidentemente invisibile. Guarda Diletta, ti fa l’occhiolino, comprati ste mutande.

Questo è un discorso laterale rispetto alla ridefinizione dei confini di crimine e violenza che la pacca sul culo alla giornalista toscana ha innescato. Ma è “il” discorso, al netto della fuffa. Perché ancor prima che un “coccolone rispettoso” si facesse beccare in fragranza d’idiozia, al consumatore di sport italiano veniva già assegnato un gusto, a tavolino. Dolosamente incuranti del fatto che a una buona parte di noi dell’estetica sessuale di chi ci racconta lo sport non interessa un fico secco. Uomo, donna, granchio marmorizzato, col culo in evidenza o la calvizie incipiente, ci faremmo bastare il contenuto fatto bene. E invece no, ci tocca subire l’onta dell’identificazione con un cliché: maniaci stereotipati come adolescenti in crisi ormonale. Ma ancora peggio: insipidi telespettatori senza pretesa, monodimensionali, arresi al piattume.

E’ un’approssimazione coatta di cui ci sentiamo vittime, in un momento in cui il vittimismo è argomento peloso, e passare per carnefici – o quanto meno infami irrispettosi – è un attimo. Vince l’idea che si ha di noi, al di là di tutto. Inscalfibile. Una rappresentazione patologica. Hai voglia ad opporre resistenza, a urlare che non è vero, che noi non siamo così. Tanto lo sanno tutti che alla prima pacca a tiro non ci tireremmo indietro. Voi credete di non essere così, ci rispondono. Ed è anche per questo che siete così. “Ci siamo capiti no?”. Ecco… no!

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