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La cultura dell’alibi, Spalletti erede dell’applicazione monastica di Ottavio Bianchi

A Napoli ogni forza è centrifuga, ogni storia è un alibi che ti conduce per mano ad una lenta ed inesorabile eutanasia. La cultura dell’alibi esiste anche nel Calcio Napoli

La cultura dell’alibi, Spalletti erede dell’applicazione monastica di Ottavio Bianchi
Db Milano 21/11/2021 - campionato di calcio serie A / Inter-Napoli / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Luciano Spalletti

“Alibi” è una parola latina che significa “altrove”. A Napoli, città imperniata attorno a un patologico terrore dell’abbandono – luogo dove si emigra ma non si viaggia – la necessità di evasione è clandestina: dove alla luce del giorno si fa a gara nel misurarsi sul proprio restare, tutti, nottetempo, sfuggono via assecondando un collaudato meccanismo psicologico.

Ottavio Bianchi, per sottrarsi alla evasione altrimenti ineluttabile, ha confessato ultimamente di aver vissuto quattro anni azzurri da recluso, cenando con i camerieri. Vivere adesso richiede applicazione monastica. Perché – è evidente – venire meno all’alibi, cioè focalizzarsi su ciò che è ora, è un movimento ciclico e tragico dell’animo (“Sono figlio ed erede di una timidezza criminosamente volgare” cantavano gli Smiths in “How soon is now?”). Vivere, essere, sentire l’adesso è l’abisso degli esseri umani e in un luogo criminosamente dolce come Napoli ogni forza è centrifuga, ogni storia è un alibi che ti conduce per mano ad una lenta ed inesorabile eutanasia.

Dopo Bianchi, solo Spalletti ha opposto una diga altrettanto solida contro le miriadi di scuse che la città è pronta a ricamarsi addosso. Ha giocato a Milano con una lista di convocati da far invidia alle renne natalizie – Dasher-Petagna, Vixen-Demme, Prancer-Politano – e, reduce da giornate di squalifica, ha preso su di sé il fardello e non ha proferito parola. Si può scegliere di stare o di andare ma scegliere di fingere è criminoso e il crimine lo scelgono gli sfigati.

Per provare a proseguire, Spalletti dovrà guardarsi anche dalla società per cui lavora. Ondivaga, in passato come nel presente, finta castigatrice dei costumi ma in fondo anch’essa avvinta dall’alibi all’occorrenza, tutto sommato inesperta. Domenica sera, al termine della solida vittoria azzurra a San Siro, ha sfoderato sul suo sito ufficiale un elogio d’eccezione. “È stata la mano del Napoli” ha commentato, intestando il film alla città e alla sua gente, forgiandosi con scaltrezza e velocità un altro alibi populista. La pellicola di Sorrentino corre per il mondo, tratta dell’assurdità del dolore, dell’andare, del restare. Soprattutto, tratta della perseveranza, che è la leva necessaria ad avvinghiarsi all’istante, è il costo del vivere senza eccessivi infingimenti.

Un grande regista, altrove nel mondo, ne rimodulò anni fa la definizione: “Do the right thing”. Fa’ la cosa giusta. Non basteranno gli schemi e le tattiche. Non basterà immaginare che tutto parli di Napoli. Per superare la sirena dell’alibi ci vogliono gli uomini che facciano, anche solo per caso, la cosa giusta.

Auguri a tutti. Ai ragazzi di Milano. E a Luciano Spalletti.

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