ilNapolista

Un altro Fusco nella nazionale di rugby: Alessandro continua la storia del grande Elio

E’ tra i convocati di Italia-Nuova Zelanda. Riportiamo il racconto della mitica Partenope di Fusco, dall’autobiografia di Bolleson

Un altro Fusco nella nazionale di rugby: Alessandro continua la storia del grande Elio

Tra i convocati della Nazionale di rugby che gioca domani in amichevole all’Olimpico contro gli All Blacks spunta un nome che ha che fare con la storia dello sport campano, non solo del rugby. Fusco. Alessandro Fusco. Pronipote di Elio Fusco, leggenda napoletana del rugby anni Sessanta, che in Nazionale giocò 11 volte. Fu tra le altre cose anche l’allenatore della mitica Partenope campione d’Italia nel 1965 e 1966.

Dei tre figli di Elio Fusco, il primo si chiama Annibale Rugby. L’ultimo voleva chiamarlo Meta, ma glielo negarono all’anagrafe e divenne Alessandro, che giocò anche lui in nazionale. Ora ne esordisce un altro, di Alessandro Fusco.

Pur di giocare con la Partenope di Fusco l’ingegner Marco Bollesan si fece trasferire dall’Italsider di Genova a quella di Napoli. Una storia bellissima che racconta lo stesso Bollesan nella sua autobiografia “Una meta dietro l’altra”. Ecco cosa scriveva Bollesan della sua avventura napoletana, e di Elio Fusco. 

Io non me la sentivo di tornare in B, e visto che la Partenope, da tempo, mi cercava, decisi di accettare e di trasferirmi a Napoli. Anche perché Elio Fusco, col quale in Nazionale avevamo già un buon rapporto, e che di quella Partenope che aveva appena vinto lo scudetto era, oltre che il mediano di mischia, anche l’anima (di ferro), mi disse che se avessi accettato di giocare con loro, avrebbe fatto in modo di farmi trasferire all’Italsider di Bagnoli, e soprattutto mi avrebbe fatto avere la qualifica di impiegato.

«Belin, Elio, per avere la qualificato di impiegato bisogna almeno essere diplomati, e io un diploma non ce l’ho».

E lui, con la sua aria da furbo, da quello che sapeva cosa fare e come farlo, mi rispondeva: «Tranquillo, Marco, stai tranquillo, pensiamo a tutto noi. Tu non ti preoccupare. Devi soltanto dire sì». E io dissi va bene, perché io non mi faccio dettare le risposte da nessuno. Neanche da chi mi promette uno scatto di carriera che per me, fino a quel momento, era impensabile. E non è che ci credessi tanto, ugualmente. Fino a quando mi chiamarono all’Italsider. Incontro un dirigente che mi dice: «Signor Bollesan, qua mi comunicano che lei sarà trasferito a Napoli con la qualifica di impiegato di primo livello. Vuole trasferirsi?». L’ho guardato un po’ stranito, e anche lui non sembrava molto convinto, ma l’occasione non potevo perderla, e allora ho risposto che certo, sarei andato a Napoli. Però mi dovevo anche sposare., e allora anticipammo il matrimonio per riuscire a fare tutte le cose in tempo prima di cambiare aria, vita, tutto.

Fu così che cominciarono i miei quattro anni a Napoli, o meglio, a Bagnoli, perché avevamo preso casa lì (all’inizio non avevamo casa, avevamo una stanza in affitto, poi ci procurarono una casa, e poi, con l’aiuto dei genitori di Mariangela, decidemmo di fare un investimento, e una casa la comprammo, anche se prima di entrarci dovemmo aspettare che finissero di costruirla), vicino allo stabilimento dove diventai anche caporeparto. Ma questo ve lo racconto dopo.

Quattro anni alla Partenope sono stati intensi, belli, ricchi di rapporti personali, e anche di crescita importante nel mio rugby. Perché, diciamocelo chiaramente, fino a quel momento il mio gioco era gli autoscontri, e bum e bum, giù cornate, per passare, e siccome ero il più arrabbiato di tutti, spesso passavo. Ma a Napoli ho imparato che se un muro non lo puoi abbattere a testate, invece di continuare a spaccarti la testa magari puoi girargli intorno. Ho scoperto che c’era anche l’inventiva, l’improvvisazione, utili magari per uscire da qualche situazione intricata. Strada chiusa? E oplà, palla passata dietro la testa, e se non la prendevi ti invitavano a scetarti. Ma che ne sapevo io, che si poteva anche giocare così? Ma non ci ho messo tanto a scetarme. E quello era il gioco della Partenope di Elio Fusco.

Elio, nel suo campo, era un genio, era capace di invenzioni estemporanee, di furbate che non credevi possibili, e invece lui le realizzava. In quegli anni c’era un solo arbitro a dirigere le gare, i guardalinee erano uno ciascuno tra i dirigenti o gli accompagnatori delle due squadre. E allora, spesso, al momento della mischia chiusa, se l’arbitro era dall’altra parte, lui non introduceva neanche il pallone: faceva finta. E in un attimo il gioco era aperto dai piedi della terza centro, cioè il sottoscritto, e la pressione avversaria, così, gli faceva letteralmente fresco. Provavano a protestare, ma il rischio era anche quello di passare per fessi, e così Elio ogni volta la faceva franca. Perché come dicevano loro, devi essere un po’ sfaccimme nella vita. E questa per me è stata una grande lezione.

Ma non era solo astuzia, quella Partenope. Era anche la forza di un pilone come Franco Ascantini, e degli altri ragazzi della mischia, colossi come i fratelli Digiovanni e Gelormini, e poi anche Chiattilla Silvestri, tallonatore. Lo chiamavano la piattola perché se ti capitava vicino non ti mollava più: parlava sempre, in continuazione, e cambiava argomento ogni tre secondi, e ti asfissiava con mille domande, e mille perché. Non la smetteva mai: da qui il soprannome.

Il primo anno che sono arrivato a Napoli, devo ricordarlo, loro erano già i campioni d’Italia, e noi si giocava con lo scudetto sul petto. Bello, però non era mio. Ne volevo uno anche per me. E quell’ano, infatti, replicammo. Con un gioco arioso, aperto, come all’epoca si vedeva raramente. In quello che adesso si chiama triangolo allargato, ma che se qualcuno lo avesse chiamato così allora avremmo pensato solo alla geometria, e che era, come minimo, un mezzo pazzo, c’erano Ambron e Carlotto alle ali, e ‘o Dottore ad estremo. Lo chiamavano così, Marcello Martone, perché di lavoro facevo quello: il dottore. All’apertura Mimmo Augeri, che invece era avvocato. E io, che avevo fatto solo l’avviamento, e poi mi ero iscritto al Nautico, ma senza finirlo, ero la terza centro: per me il rugby è stato acculturante, mi ha permesso di parlare da pari a pari con gente che aveva studiato, e non sembravo neanche il più scemo. Mi piace ricordare anche Rino Carboni, era ufficiale nell’aeronautica. Un ragno di merda, rideva sempre ma era un placcatore terribile. Placcava tutti, placcava anche noi. Lo chiamavamo il Mastino, perché ti si attaccava alle caviglie e non ti mollava più. Mi si era affezionato, mi invitava a mangiare in mensa nella loro caserma, sopra a Posillipo, e quando entravo con lui tutti sull’attenti. Non per me, naturalmente, ma la cosa mi faceva sempre un po’ impressione.

Quel campionato, comunque, fu esaltante: 17 vittorie, 3 pareggi e 2 sconfitte. Ecco, quelle sconfitte arrivarono una dopo l’altra, nel girone di andata, e fu il momento più difficile dell’anno. Prima l’Asr Milano, in casa sua, e poi l’Amatori Milano, in casa nostra, al Vomero ci fecero perdere e vacillare nel giro di una settimana, da una domenica all’altra. Però era tutta una finta.

È che la Partenope era una Polisportiva, e il presidente era appassionato soprattutto di pallacanestro, per cui non è che la sezione rugby fosse in cima ai suoi pensieri. Però la società non aveva pagato quei soldi, sotto banco, che ci aveva promesso. Non erano grandi cifre, non ne giravano nel rugby di allora, ma era anche una questione di principio. Allora Elio, ché lui e Augeri, l’avvocato, erano quelli che trattavano per tutti, ci disse, prima di giocare a Milano: «Guaglio’, questa la perdiamo. Tanto che ‘cce frega, ‘o scudetto lo vinciamo uguale». E così sconfitta con l’Asr Milano. Ma in società fanno orecchie da mercante, nessuno vuole cedere in questo gioco di forza. Però Elio era capa tosta, se n’era fatto un punto d’onore, che i patti fossero rispettati, e noi con lui.

Per cui, prima di giocare in casa con l’Amatori, di nuovo: «Perdiamo anche questa, tanto lo scudetto lo vinciamo uguale». Due partite scandalose: nessuno correva, o correvamo poco, il minimo sindacale. Chi calciava, calciava male. Palloni gettati a casaccio. Ma in società capirono l’antifona e sganciarono quello che dovevano sganciare. Perché i patti sono patti. Ed Elio tornò a parlarci: «Guaglio’, mo dobbiamo vincerlo, questo scudetto, se no ci fanno un mazzo tanto». Fatto sta che al turno successivo andammo a vincere in casa delle Fiamme Oro, a Padova, e ricominciammo a vincere, fino al secondo scudetto, per la Partenope, e al primo per me.

Bello vincere a Napoli. Più bello che altrove, non ho nessun dubbio. Abbiamo fatto festa per quindici giorni. Perché tutti si esaltano, perché tutti ti esaltano. Non so quante migliaia di persone ci fossero lì, al Vomero, ma erano tante, e anche se non capivano niente di rugby, e addirittura c’era chi esultava se il pallone entrava sotto i pali delle acca (goool, urlavano) erano felici perché Napoli era campione d’Italia. Era come una eterna rivincita che sentivano di dover prendere verso tutto il resto del Paese, e noi della Partenope eravamo quelli che portavano innanzi il nome, il buon nome, di tutta Napoli, della Napoli che sa stare davanti a tutti. Pensa che mi fermavano anche per chiedermi l’autografo. C’era una gioia e un modo di celebrare quella vittoria che poi raramente ho rivisto o rivissuto. C’era la gioia di chi si confermava campione, di chi dimostrava che si poteva fare grande rugby anche lontano dai soliti centri della palla ovale in Italia, e poi di chi, come me, diventava campione d’Italia per la prima volta. Bella sensazione, quella di essere al vertice del rugby italiano.

C’era un bel clima in squadra, e attorno alla squadra. Quelli quasi tutte le volte, dopo l’allenamento, uscivano e facevano le ore piccole, ma spesso io non partecipavo. Non perché non mi avrebbe fatto piacere, ma perché a casa c’era Mariangela, e poi Miride, e mi faceva più piacere stare con loro, anche se i miei compagni non ci credevano.

ilnapolista © riproduzione riservata