ilNapolista

Non puoi raccontare Napoli se non te ne vai. Sorrentino ricomincia da Troisi

“È stata la mano di Dio” richiama il capolavoro di Troisi come lo stesso regista dichiara. Un film maturo, intenso, con grande memoria degli anni Ottanta

Non puoi raccontare Napoli se non te ne vai. Sorrentino ricomincia da Troisi
Il regista Paolo Sorrentino riceve la laurea Honoris Causa, Università Federico II di Napoli. Director Paolo Sorrentino receives Graduation Honoris Causa, University Federic II in Naples

“La grande bellezza” è Roma vista e vissuta da emigrante. Le feste, la mondanità, il potere, il superfluo, l’opulenza, quella sensazione di essere al centro del mondo. “È stata la mano di Dio” è Napoli vista e vissuta negli anni Ottanta da un ragazzo che è poi emigrato. Se n’è andato nonostante il suo punto di riferimento cinematografico gli avesse detto: “Che vai a fa a ‘stu Roma. Solo ‘e strunz vanno a Roma” e glielo dice con la cartolina del Vesuvio sullo sfondo. Perché Napoli non puoi raccontarla se non te ne vai, questo ad Antonio Capuano (è lui il riferimento) Sorrentino non lo fa dire. Altrimenti non avremmo avuto “Ferito a morte” e nemmeno “Ricomincio da tre”. Con cui c’è un filo ben più evidente di un fratello sempre in bagno, che stavolta è una sorella. Solo il miracolo dello scudetto la fa uscire da lì. “È stata la mano di Dio” è un’altra versione del capolavoro di Troisi (come lo stesso Sorrentino ha dichiarato in conferenza stampa). Una versione più intima. Sorrentino racconta la sua vita. La tragedia dei genitori morti a Roccaraso per un fuga di gas. E lui, Fabietto, che era rimasto in città perché quel giorno si giocava Napoli-Empoli. “È stata la mano di Dio” appunto. Maradona. Alla fine, però, Fabietto se ne va. Come se ne andò il Gaetano di Troisi.

Un film maturo, compiuto. Dove ciascuno può trovare quel che più desidera, quel che più sente vicino a sé. Le frasi da ricordare non mancano. «Non puoi mai sapere cosa succede nelle case delle persone», è una delle tante.

Se “La grande bellezza” comincia con la mega-festa in terrazza, la canzone di Raffaella Carrà, le ragazze sui cubi, Serena Grandi, Buccirosso che ripete “te chiavasse”; “È stata la mano di Dio” plana su Napoli col traffico in piazza del Plebiscito, i clacson delle auto imbottigliate, le persone in speranzosa attesa alla fermata dell’autobus. Convenzionale potremmo dire (richiamando una frase di Fellini citata nel film), ma anche sincero. In un’automobile c’è Enzo Decaro che si presenta come San Gennaro. Poi il munaciello e l’ingresso nelle tragedie familiari.

Sorrentino racconta la sua vita, la sua Napoli. Richiama la commedia di Eduardo («voi napoletani siete cattivi», dice la condomina altoatesina vittima di uno scherzo telefonico). Personaggi esasperati ma nemmeno più di tanto. Ciascuno recita la propria parte per andare avanti. La vita negli anni Ottanta di una famiglia borghese napoletana come tante, apparentemente felice come tante. «So guardare» dice Fabietto ad Antonio Capuano. E in effetti Sorrentino ricorda tutto degli anni Ottanta. Gli arredamenti, gli orologi al quarzo, le vite condominiali nei palazzi. Le tv senza telecomando. «Niente telecomando, siamo comunisti» dice il padre. Il liceo classico considerato per tanti genitori un vero e proprio spartiacque, la finestra sul mondo che conta. Lo stadio San Paolo senza bagni, allora per davvero: si faceva pipì contro il muro. Una chicca l’assenza di cani. Oggi sarebbe impossibile ambientare un film senza cani. Allora erano minoranza. Ricorda anche le sue infelicità, la sua solitudine. «Non ho amici», dice al padre.

Maradona è la colonna sonora del film e quindi della vita di Sorrentino. Maradona è l’attesa, come il Rex di Amarcord. «Se dovessi scegliere, cosa sceglieresti? – gli chiede il fratello -, l’arrivo di Maradona o una chiavata con zia Patrizia?». Fabietto, pur essendo pazzo di zia Patrizia (una bravissima Luisa Ranieri), risponde Maradona. L’epifania anticipata dal padre che lavora in banca. “Hanno firmato le fideiussioni”. Fideiussioni: parola che all’epoca a Napoli era più pronunciata di mare. I Mondiali dell’86 con Napoli fuori ai balconi che tifa Argentina: la mano di Dio, che Sorrentino rende pomeridiana, arriva in contemporanea a due carabinieri che bussano alla porta di famiglia.

Poi il giorno di Napoli-Empoli. La fine della spensieratezza. Fabietto non può più essere un figlio di famiglia. La famiglia non c’è più. Almeno prima in qualche modo si teneva in piedi. Ora è impossibile. Comincia il crudo passaggio all’età adulta. Prima con una rivelazione della sorella (sempre dietro la porta del bagno). Poi attraverso il rapporto con un giovane contrabbandiere riconosciuto allo stadio, una rissa, la notte a Capri. Il carcere dove va a trovarlo. Alla fine seguirà l’indicazione del contrabbandiere, non quella del regista. «Sei libero, nun t’o scurda’ mai», gli dice in carcere. Quindi l’iniziazione sessuale. Con la nobile anziana del palazzo, di fatto assecondando le raccomandazioni del padre: «La prima volta non andare troppo per il sottile, non badare se è bella o brutta». E con il sesso la sigaretta che ancora una volta – come in This must be the place – simboleggia il definitivo cambio di stato: il passaggio all’età adulta.

E infine il treno Napoli-Roma, all’epoca il Frecciarossa non c’era. Fabietto fa la stessa scelta del Gaetano di Troisi. Il walkman e la canzone per eccellenza degli emigranti degli anni Ottanta e Novanta: “Napul’è” di Pino Daniele.

ilnapolista © riproduzione riservata