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Spalletti ha lavorato al Napoli come se il Napoli non avesse un passato

Non si è fatto condizionare da sovrastrutture culturali pregresse e gerarchie consolidate, agendo semplicemente secondo coscienza, conoscenza, meritocrazia e intuizioni sul campo

Spalletti ha lavorato al Napoli come se il Napoli non avesse un passato

Quanto conta l’intensità

La vittoria del Napoli a Varsavia ha un grande significato, e non solo per quello che riguarda il percorso in Europa League. Il successo in Polonia è servito e servirà a dimostrare, una volta di più, l’importanza di alcuni concetti che devono appartenere a questa squadra, a questo progetto in essere e in divenire: l’importanza dell’alta intensità di gioco, a prescindere dai moduli, dai principi tattici, dai calciatori scelti da Spalletti alla vigilia di ogni partita; e poi la necessità inalienabile del turn over, lo strumento fondamentale per far sì che tutti possano dare il proprio contributo. Per poter sfruttare davvero quella che è la grande forza di questa squadra: la profondità, intesa anche come varietà, dell’organico.

Cominciamo dal chiarire alcuni punti trattati finora, come se si trattasse di un prologo con annessa nota metodologica. Cosa intendiamo quando parliamo di “intensità di gioco”? In un sistema tattico complesso come una squadra di calcio, si tratta della quantità di forza e di spinta – ovviamente non misurabile in maniera empirica – nell’applicazione dei propri principi di gioco. Per squadre sistemiche e identitarie come quelle di Guardiola, Klopp o Sarri, che attuano dei meccanismi tendenzialmente fissi, l’intensità di gioco è – deve essere – costantemente alta cosicché quei principi meccanici possano mettere in difficoltà gli avversari anche se ormai sono stati conosciuti, studiati, dagli avversari stessi; per le squadre più fluide – soprattutto in fase offensiva – come per esempio il Napoli di Spalletti, l’intensità di gioco può cambiare, aumentare o diminuire nel corso della partita. A seconda dei momenti. In base all’andamento della partita stessa. E alle scelte tattiche dell’allenatore.

La transizione è finita

Il Napoli, già da alcuni anni, è una squadra in transizione dal calcio sistemico al calcio fluido. Non (solo) per scelta, ma perché il mercato dei giocatori e degli allenatori, anche quello piuttosto conservativo del Napoli, è estremamente dinamico. E allora la necessaria intensità di gioco, quella che occorre per vincere le partite, non va più ricercata attraverso l’esasperazione di meccanismi fissi. Piuttosto, è fondamentale aggredire alcuni momenti delle partite in maniera più marcata. Oppure in maniera diversa, nel senso di più varia, per sorprendere l’avversario di turno.

Proprio come non ha fatto il Napoli nel primo tempo della gara di Varsavia, esattamente come ha fatto il Napoli nel secondo tempo della gara di Varsavia. La differenza tra primo (1-0 per il Legia) e secondo (0-4 per il Napoli) tempo l’hanno fatta, nell’ordine: un atteggiamento tattico più convinto da parte degli azzurri; il calo dell’attenzione difensiva degli avversari, che – è doveroso dirlo – erano e sono tutt’altro che trascendentali; le sostituzioni di Spalletti, che hanno determinato una maggiore vivacità e freschezza nel momento giusto. Nel momento giusto per cambiare.

In alto, un attacco posizionale del Napoli nel primo tempo; sopra, uno nella ripresa. E allora dove sta la differenza?

Come si vede dai due screen appena sopra, sembra che non ci sia differenza: per la maggior parte della partita, il Napoli ha dovuto attaccare in accerchiamento un avversario schierato in maniera a dir poco conservativa, con cinque difensori e quattro centrocampisti in fase passiva, con limitatissime velleità di pressione alta e un’attitudine esclusiva alle ripartenze veloci. Per giocare questo tipo di partita, Spalletti ha scelto un 4-2-3-1 più puro rispetto a quello disegnato solitamente in campionato, con Anguissa e Demme davanti alla difesa e Zielinski nello slot di sottopunta.

Nel primo tempo, il meccanismo più utilizzato per provare a forzare il sistema difensivo degli avversari è stato l’allargamento del gioco sulla destra: Di Lorenzo e Lozano si sono sovrapposti a vicenda in molte occasioni, il messicano ha giocato un numero elevato di palloni (36, più di tutti gli altri giocatori offensivi) e ha cercato per 6 volte il dribbling (4 completati e 2 falliti), quota record tra tutti i calciatori in campo, ma non è riuscito a incidere in fase di rifinitura e soprattutto di conclusione.

Il merito, come detto sopra, va anche al Legia: la squadra polacca si è difesa bassa ma con ordine, ha trovato il gol del vantaggio con una bellissima azione sulla sinistra ed è stata anche fortunata in occasione del tiro di Zielinski al 16esimo minuto, finito sulla traversa. Anche quell’azione è nata da destra, da un gioco a due condotto da Lozano e Demme, bravo a sovrapporsi internamente al laterale messicano.

Buonissima giocata di Demme

Il secondo tempo si è aperto con un altro tiro finito sul legno, quello del Legia sul primo pallone giocato dalla squadra polacca nella ripresa. È il quinto dei 6 tiri tentati dai padroni di casa, quindi anche di quelli concessi dal Napoli. Da lì in poi, come detto, il Napoli ha aumentato l’intensità del suo gioco, e così il dominio già perpetrato nel primo tempo è diventato qualcosa di più: una vittoria netta, schiacciante, meritata. Ai punti, innanzitutto: solo nel secondo tempo, la squadra di Spalletti ha messo insieme 12 conclusioni, di cui 4 nello specchio della porta (le 4 reti segnate dagli azzurri); 6 di queste sono arrivate da fuori area, 4 dall’interno dell’area e addirittura 2 dentro l’area piccola. Come detto, il Legia non ha costruito nessun’altra azione degna di nota.

In alto, tutti i palloni giocati dal Napoli nel primo tempo; sopra, la stessa rappresentazione grafica riferita alla ripresa. Tra un attimo vi spieghiamo a cosa servono questi due campetti.

Ma allora come si è manifestato il cambiamento? In che modo il Napoli è diventato più pericoloso ed efficace in attacco? Innanzitutto, la squadra di Spalletti ha iniziato a variare gioco, quindi a non fossilizzarsi solo su Lozano, sulla creazione di duelli in isolamento tra il messicano e l’esterno difensivo dalla sua parte – questa trasformazione si percepisce chiaramente dai due campetti che vedete in alto. E poi ci sono stati, nell’ordine: un aumento sensibile nel volume del possesso palla (dal 68% al 72%); una riduzione dei cross (da 12 a 6) e dei passaggi alti in generale (da 28 a 16); conseguentemente a tutto questo, le manovre sono diventate più veloci, più ambiziose e tendenti a rompere le linee avversarie, non solo ad accerchiarle.

Il primo gol – o meglio: il rigore fischiato a Zielinski – non è arrivato per effetto diretto di questi cambiamenti. L’azione da cui si origina il fallo di Josué sul polacco nasce infatti in maniera casuale, da una rimessa laterale e da una (bellissima) sponda di Petagna ad assecondare il movimento di Elmas. In realtà, però, si tratta già di un’azione in cui il Napoli ha effettivamente forzato la difesa del Legia per vie centrali, attraverso una giocata complicata che – anche questo è doveroso dirlo – viene letta e assorbita malissimo dalla difesa di casa.

Il rigore conquistato da Zielinski

I cambi

Il bello di essere e di avere una squadra fluida, liquida, si è manifestato con i cambi di Spalletti. Che, tra il 65esimo e il 73esimo, ha dato una fisionomia completamente nuova al suo Napoli. Il tecnico toscano ha fatto entrare prima Lobotka (per Demme) e Politano (per Elmas), infine Mertens (per Zielinski). In questo modo, il 4-2-3-1 del Napoli è diventato ancora più spregiudicato, più offensivo, più immediato e diretto. Basta riguardare quello che succede pochi istanti prima del fallo da rigore (ancora) di Josué su Politano.

Due azioni dirette e verticali nel giro di pochi secondi

In questa azione, il Napoli prova a velocizzare la sua risalita dal campo per due volte, ma la giocata decisiva è quella di Juan Jesus. Che, semplicemente, legge e asseconda il momento di difficoltà del Legia, di dominio del Napoli, e aggredisce in alto i suoi avversari. Dopo il recupero palla, gli uomini di Spalletti fanno di nuovo la stessa cosa, ovvero cercano un’altra soluzione rapida per risalire il campo. La trovano e così creano una falla nel sistema difensivo degli avversari. Da notare come Petagna compia un movimento diametralmente opposto rispetto al classico attacco della profondità di Osimhen: il centravanti del Napoli non prova a sfilare dietro le spalle dell’avversario, piuttosto lega la giocata di Juan Jesus e apre il pallone sulla destra per Politano. Insomma, il calcio verticale può funzionare anche per chi, in teoria e/o nella realtà, ha caratteristiche fisiche e tendenze diverse.

Il passaggio di Mertens è una sciccheria

Lo stesso discorso di aderenza possibile al calcio verticale vale anche per Dries Mertens. Che, nell’azione del gol di Lozano, mostra perfettamente i motivi per cui il suo ruolo, nel Napoli di Spalletti, deve essere quello di sottopunta. Qui il belga è splendido a mixare le due anime del suo gioco, perché partecipa bene alla costruzione della manovra a centrocampo, zampetta in mezzo alle linee avversarie e infine inventa, letteralmente inventa, un corridoio perfetto per il taglio esterno-interno di Petagna – bravissimo poi a rinunciare a una conclusione semplice e a mettere Lozano davanti alla porta spalancata.

Qui si apre un discorso interessante, anzi potenzialmente decisivo per la stagione del Napoli. In occasione della partita con la Salernitana, in questo spazio abbiamo evidenziato la prestazione negativa di Mertens. Non l’abbiamo addebitata esclusivamente a lui, ma anche al fatto che nel Napoli di oggi – quello della transizione finita di cui abbiamo parlato all’inizio dell’analisi – è difficile pensare al belga come a una prima punta titolare. Non è colpa sua, né di nessun altro: il tempo è passato, il calcio è passato ed è cambiato, il Napoli è una squadra diversa e non può più fornire a Mertens il supporto necessario perché possa essere efficace come un tempo come attaccante di riferimento.

Supersub

Questo non vuol dire, però, che Mertens non sia – o non possa essere – una risorsa per Spalletti. Come in occasione della gara contro il Torino, a Varsavia Mertens è entrato dalla panchina ed è stato decisivo. Segnando dal dischetto, ma soprattutto muovendosi bene e servendo palloni come quello che abbiamo visto nel video in alto, appena prima del gol di Lozano. Considerando il numero e l’importanza delle partite che giocherà il Napoli da qui a fine stagione (è difficile pensare che la squadra di Spalletti non resti in corsa almeno per la qualificazione in Champions League fino alla fine del campionato, e poi è probabile che l’avventura in Europa continui), questa nuova dimensione/funzione di Mertens potrebbe fare la fortuna degli azzurri.

Facciamo un veloce paragone che piacerà molto a chi segue e ama la Nba. Nella lega di basket più bella del mondo, c’è proprio la figura istituzionalizzata del Sixth Man, letteralmente sesto uomo, vale a dire un grande giocatore che parte solitamente in panchina e poi entra in campo per determinare le partite. Spesso, per identificarlo, viene utilizzata anche la definizione Supersub. La lega assegna addirittura un premio ufficiale per il miglior Sixth Man della stagione.

Ecco, Mertens sarebbe perfetto come Sixth Man, o meglio ancora come Supersub, per il Napoli di Spalletti. Senza dimenticare le enormi differenze che passano tra calcio e pallacanestro, resta il fatto che Mertens potrebbe interpretare al meglio questo ruolo di spaccapartite, con la sua sensibilità tecnica, la capacità di leggere al meglio i corridoi offensivi, la sua letalità sottoporta. A 34 anni, in questo Napoli che ormai parla un’altra lingua, un Mertens utilizzato in questo modo potrebbe essere la soluzione migliore. Per tutti.

Conclusioni

Ci siamo tenuti due assi nella manica per il finale di questa analisi. Asso numero uno: pur tenendo conto del livello poco più che mediocre del Legia, va detto che il Napoli ha dominato e vinto in trasferta senza Osimhen, Insigne e Fabián Ruiz. Asso numero due: nel discorso sull’importanza dei cambi, va inserito anche Adam Ounas che ha dimostrato ancora una volta di poter essere un giocatore decisivo, di poter cambiare – in maniera ancora diversa rispetto a Mertens – il gioco del Napoli, rendendolo più vivace, più veloce.

Ecco, in virtù di tutto quello che abbiamo scritto, è ora doveroso sottolineare i meriti di Spalletti. Che, in pochi mesi, ha compreso come e quanto fosse necessario che il Napoli diventasse una squadra in grado di sfruttare questa sua profondità, questa sua varietà tecnico-tattica, senza farsi condizionare da sovrastrutture culturali pregresse e gerarchie consolidate, agendo semplicemente secondo coscienza, conoscenza, meritocrazia e intuizioni sul campo. Oggi il Napoli è una squadra che va a Varsavia con molti assenti, cinque sostituzioni nell’undici titolare e gioca molto bene. Che può rinunciare a Osimhen eppure riesce a cambiare più abiti nel corso della stessa partita. Che ha un allenatore in panchina in grado di riconoscere l’identità non sistemica del suo organico. E allora si regola di conseguenza.

Spalletti, insomma, ha compreso che giocare per davvero tutte le partite di tutte le competizioni è la scelta giusta. Non solo eticamente e ontologicamente, ma proprio per la natura della sua squadra. Per tenere tutti i giocatori sulla corda, per spingerli a migliorare, per far sì che siano sempre pronti per qualsiasi evenienza. Per subentrare a gara in corso, per giocare dall’inizio, per sostituire un compagno infortunato. Il Napoli che cambia in base a questi cambiamenti, e che sa giocare e vincere le partite alzando e abbassando l’intensità del suo calcio, è un Napoli che potenzialmente non ha limiti. Perché è una squadra forte, e perché certi limiti non se li è autoimposti, finalmente.

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