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Il nonno comunista e la maglietta di Shevchenko

Arriva al Genoa come allenatore un calciatore che fu il prototipo dell’attaccante moderno, un fuoriclasse che correva e al quale sono legate una storica vittoria e una storica sconfitta

Il nonno comunista e la maglietta di Shevchenko
Bucarest (Romania) 21/06/2021 - Euro 2020 / Ucraina-Austria / foto Uefa/Image Sport nella foto: Andriy Shevchenko

Shevchenko al Genoa. Pare che sarà l’ex centravanti del Milan il nuovo allenatore dei rossoblù.

Cinque anni in panchina per lui. Tutti da commissario tecnico dell’Ucraina, con cui ha raggiunto per la prima volta nella storia della nazionale i quarti di finale dei Campionati Europei. Solo un’altra volta l’Ucraina era riuscita ad arrivare fino ai quarti di una competizione internazionale: si trattava dei Mondiali del 2006, Sheva giocava – era il capitano – e fu proprio l’Italia di Lippi, poi vittoriosa a Berlino, a buttare fuori i gialloblù.

Cinque anni più che discreti, dunque, ma da commissario tecnico. Nessuna esperienza in un club.

In Italia chiaramente lo ricordiamo da calciatore. Anzi: forse lo ricordiamo troppo poco. Troppo poco in relazione alla portata «rivoluzionaria» (mi si perdoni il termine, forse eccessivo) del suo modo di interpretare il ruolo. Che gli ha fruttato un pallone d’oro (nel 2004) ma che soprattutto ha aperto negli anni successivi la strada ad un nuovo modo, diverso dal passato, di intendere il centravanti.

Shevchenko è forse il primo prototipo dell’attaccante «moderno». Nacque prima punta, e la prima punta ha fatto quasi per tutta la carriera. Non poteva che essere così, visto che era dotato di un fiuto del gol fuori dal comune. Ma questa era una caratteristica comune a tanti suoi colleghi. Sheva era molto di più. Ambidestro, sapeva svariare su tutto il fronte d’attacco. E svariava, creando spazio per sé e per gli altri. Non segnava solo da opportunista, segnava in tutti i modi: col destro, col sinistro, da fuori area, da dentro l’area, di testa, di potenza, di precisione. E poi, tanto per non farsi mancare niente, quando scattava palla al piede e andava in dribbling era a tratti imprendibile.

Un repertorio di una completezza disarmante che metteva con un’abnegazione tipicamente est-europea sempre al servizio della squadra. Come richiedono oggi più di ieri gli allenatori.

In Italia, al Milan, ha vissuto il periodo più florido della sua carriera. Regalando delle perle incastonate nella storia di San Siro. Una, indimenticabile, nel 2001 contro la Juventus. Innescato da una sponda di Javi Moreno, l’ucraino attaccò ferocemente lo spazio all’altezza della tre-quarti e saltò di potenza e classe tre difensori bianconeri. Subito dopo, dal limite dell’area – molto decentrato – fece partire incrociando di destro un bolide che s’insaccò inesorabilmente alle spalle di un incolpevole Buffon. Fu un gol manifesto, che aprì (di lì a poco) un’indimenticabile stagione di successi per i rossoneri, ai vertici del calcio europeo almeno fino al 2008.

Insomma, spesso se ne parla poco. Soprattutto in relazione ad altri campioni, che pure hanno segnato la storia di questo sport. Ma la mia opinione è che chi è nato tra l’inizio degli anni 90 e le soglie del 2000 non può che legare indissolubilmente una parte dei suoi ricordi legati al calcio – belli o brutti – a questo formidabile attaccante ucraino.

Non so dove iniziano i ricordi dei bambini. Non so da quand’è che la nostra memoria riesce a fissare qualcosa. So però che ricordo nitidamente lo sguardo di Sheva prima di segnare ancora a Buffon il rigore che consegnò la Champions League del 2003 al Milan di Ancelotti. Ero un bambino ma ricordo dov’ero, con chi stavo guardando la partita. Quello di Shevchenko era uno sguardo concentrato. Teso, ovviamente. Un paio di occhiate all’arbitro e il pallone alla sinistra del portiere della Juventus. La voce di Piccinini ed un abbraccio a Dida consegnato alla storia. È un immagine che sta lì, stampata eternamente nella mia testa. Con l’intensità di pochi altri vissuti legati a questo sport. Di pochi altri «sguardi» indimenticabili, come quello di Grosso sotto il cielo di Berlino.

Ecco: quello di Sheva è uno dei casi (rarissimi) in cui l’immagine di un trionfo è sopravvissuta al tempo più di quella di un fallimento. Shevchenko sbagliò due anni dopo. Ancora in finale di Champions, ma contro il Liverpool. Dudek gli tolse prima un pallone dalla linea di porta in partita, e poi neutralizzò il suo calcio di rigore. Era un rigore centrale, calciato male. Ma lo ricordano in pochi. Il rigore e pure l’altro sguardo. Sta negli almanacchi ma non è indelebilmente resistito nella memoria dei bambini del tempo. E chissà, infondo, cosa è più importante.

Non so, forse mi sbaglio. Forse, semplicemente, commetto l’errore grave di elevare la mia personale esperienza di vita a verità assoluta: un errore che commettiamo in tanti, spesso.

Sicuramente non sbaglio, però, a dire che per me «il Re dell’Est» è stato un eroe. E che in fondo lo è rimasto.

Lo è stato quando in estate aizzavo il suo vessillo per spirito di contraddizione verso il barista – interista – dell’albergo dove ero in vacanza a Cattolica. Il vessillo era la sua maglietta, che mio nonno, comunista e migliorista e quindi pasdaran della riviera romagnola, mi regalò in una di quelle serate estive. Avevo cinque o sei anni, del Napoli si parlava solo nei tribunali, ed un bambino di 6 anni appassionato di calcio ha bisogno di beniamini, non di tribunali.

Lo è rimasto per il filo d’emozione con cui oggi mi sono reso conto di accogliere il suo ritorno – pure in altra veste – nel calcio italiano.

L’augurio è che in qualche modo la storia si ripeta. E cioè che Shevchenko in Italia raggiunga la gloria, da allenatore come fece da calciatore. Certo, da calciatore arrivò con una coccarda non da poco, e cioè il titolo di capocannoniere della Champions 98-99. Con un pedigree paragonabile forse a quello di Haaland quando è arrivato al Borussia Dortmund. Da allenatore arriva con una carriera tutta da costruire, seppure iniziata bene sulla panchina dell’Ucraina. E sicuramente con l’intelligenza che lo contraddistingueva pure dentro al campo. La speranza è che non venga tritato dalla macchina mangia-allenatori che il Genoa è stato in questi anni. Con la nuova proprietà, la musica potrebbe cambiare.

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