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Il razzismo e la tecnica dello struzzo: Gravina la butta in tribuna col problema culturale

La cultura siamo noi. La Federcalcio ha bisogno di un uomo che riconosca la situazione tragica e prenda provvedimenti. Non dell’ennesimo Ponzio Pilato

Il razzismo e la tecnica dello struzzo: Gravina la butta in tribuna col problema culturale
As Roma 25/07/2018 - presentazione calendari serie C 2019-2020 / foto Antonello Sammarco/Image Sport nella foto: Gabriele Gravina

È di Peter Drucker il celeberrimo motto “Culture eats strategy for breakfast” che oggigiorno campeggia sulla prima slide della presentazione di ogni istruttore di management che si rispetti. Certo non senza un motivo: la strategia di una azienda può essere eseguita in modo efficace solo se la cultura di chi deve eseguirla è compatibile ed in linea con l’obiettivo strategico. Insomma: scegli le persone adatte prima di creare un piano per ottenere un determinato risultato. Altrimenti fallirai.

Quando il presidente della Figc Gravina afferma che il razzismo non si può combattere con una banale strategia di attacco perché è un problema culturale “Per gli imbecilli non c’è decreto che tenga, lo sono per cultura non per vocazione” – piega questo termine, come sovente si fa, al proprio facile consumo, proiettandolo in uno spazio indefinito. La cultura diviene rapidamente una entità non identificabile, generalmente attribuibile a mille cause e nessuna in particolare cosicché il fine pilatesco di lavarsene le mani venga agevolmente raggiunto. Problema risolto.

Ciò che Gravina omette di dire è piuttosto da cosa questa cultura dipenda e tragga origine, lasciando scivolar giù dal tavolo del dibattito la conseguenza primaria del celebre motto di Drucker: se non hai le persone giuste, cambiale. E fallo in fretta.

Cosa è dunque la cultura a suo avviso, signor Gravina? Lo chiediamo a lei e così facendo riflettiamo questo interrogativo su noi stessi. La lotta al razzismo è infatti anzitutto una dolorosa presa di coscienza, un cammino attraverso la nostra parte peggiore. È riservata a gente coraggiosa, che sa ammettere di essere sbagliata ed è incompatibile con la senile acquiescenza tipica di chi ritiene di avere le risposte in tasca perché “ne ha viste tante” e siede per giorni e giorni ai giardinetti. È appannaggio di chi ha il fegato di riconoscere che noi tutti, escludendo forse le giovanissime generazioni, noi tutti, lei incluso signor Gravina, siamo nati, cresciuti, invecchiati in una società razzista. Sono razziste le nostre famiglie ed i loro intrecci, le nostre scuole e i loro programmi, i nostri organi di informazione, la nostra politica ed il nostro sport. E lo siamo noi. Il principale quotidiano sportivo nazionale, nell’intenzione maldestra ma lucida di sfoggiare un bel complimento, ha scritto che il Napoli ha ora il suo “black power” in Koulibaly, Anguissa e Osimhen. Tanto per dire. La connotazione discriminatoria è proprio connaturata al nostro modo di pensare. Noi annientiamo il prossimo senza accorgercene, anzi approntando anche un sorriso nel quale pretendiamo che l’altro colga l’ironia e la bonarietà. Siamo plasmati, formati ad un gigantesco modo di ragionare razzista ed il problema maggiore è che esso si manifesta come un sottilissimo bias, cioè una struttura mentale finissima, quasi un metodo di pensiero che il pensiero stesso non coglie. Per uscirne puliti, cioè pur di non dover passare qualche minuto a porsi un interrogativo, la nostra società ha derubricato il tutto a problema minore e ha annegato, come avviene sovente, in mille inutili cavilli le flebili istanze di cambiamento. Così abbiamo visto la nostra nazionale di calcio discutere per ore e giorni e settimane se dovesse inginocchiarsi o meno per trenta secondi all’inizio degli incontri, come semplice gesto di solidarietà nei confronti delle vittime di razzismo, preferendo un vortice di parole inutili che è incredibile non abbia travolto ciascuno di noi risucchiandoci sotto il tombino del ridicolo.

Ci sono stadi in cui le persone, sedute in qualunque settore, in ogni città, in qualsivoglia fascia d’età, non hanno paura a sfoggiare del pieno, tondo razzismo e sorriderne pretendendo di avere il diritto di goderne. Ma – ancora peggio – c’è razzismo in ciò che noi stessi siamo, e questa è la cultura di cui siamo attori principali. Responsabili.

Ora, che non esistano poteri buoni ce l’hanno insegnato i poeti, non lo scopriamo stasera. Ma un potere che non si mette in discussione e giustifica la propria inazione è una gatta assai peggiore da pelare. Per cui, se il nodo è la cultura ed essa continua a mangiare strategia a colazione, allora è il momento di chiedersi, signor Gravina, se lei sia l’uomo giusto al posto giusto.

La Federazione ha bisogno di un presidente che riconosca lo sfascio in cui siamo. La discriminazione in cui navighiamo quotidianamente. Se ne prenda carico. Inizi a chiedere scusa per il letamaio cui ci siamo progressivamente abituati. Intraprenda azioni eccezionali. A dirigere non servono persone che vadano di fioretto, che facciano fioccare i distinguo, che individuino le mele marce, che salvino la famosa parte sana. La parte sana non c’è. Il calcio, in Italia, è largamente razzista. Perché lo è la società italiana. Lo siamo noi. La cultura, se esiste, parte da questa semplice domanda da fare a se stessi. Se si è capaci. Altrimenti meglio lasciar perdere.

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