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Verrà la povertà e avrà gli occhi della Serie A. È venuta

Lo spettacolo è modesto. Il calcio italiano paga in maniera drammatica l’assenza di un management. Non c’è chi sappia convertire il talento in ricchezza di sistema. E i risultati sono drammatici.

Verrà la povertà e avrà gli occhi della Serie A. È venuta
Roma 12/07/2021 - Nazionale di Calcio Italiana a Palazzo Chigi / foto Pool/Insidefoto/Image Sport nella foto: Italia

Il campionato è ripreso. Più o meno con i soliti ingredienti. La lotta per lo scudetto, le polemiche arbitrali, qualche sorpresa (in questo caso l’avvio zoppicante della Juventus). Ma stavolta è più arduo far finta di niente, nascondere quella sensazione di essere diventati un film di seconda visione, di esaltarci, indignarci o litigare per uno spettacolo che è evidentemente di profilo medio-basso. Lontano dai riflettori che contano. In poche parole, la mediocrità della Serie A ti arriva in faccia in ogni momento. Anche perché la globalizzazione, maledetta, ti sbatte facilmente in faccia il calcio degli altri. Ed è sempre meglio cambiare canale, per non deprimersi.

La mediocrità ti arriva quando fai l’elenco dei calciatori che sono andati via. Donnarumma, De Paul che ieri sera ha giocato con l’Atletico Madrid, Lukaku, Cristiano Ronaldo, Hakimi, Romero. Senza dimenticare Antonio Conte, De Zerbi, l’allenatore del Real Madrid il cui ritorno in Italia è stato una meteora. Sono arrivati Giroud – che è forte, molto forte, pur se anzianotto – e soprattutto Abraham il miglior acquisto della stagione. Che però – è importante sottolinearlo – è arrivato per necessità. La Roma ha agito per coprire la falla Dzeko, non ci aveva pensato in prima istanza come invece sarebbe stato logico fare.

La sensazione di povertà ti arriva quando guardi le partite. Si giocano almeno tre campionati diversi. Ci sono almeno nove squadre – e temiamo di esserci tenuti bassi – che sono davvero limitate da un punto di vista tecnico. Calciatori non all’altezza. Solo in questo week-end abbiamo assistito a Lazio-Spezia e Salernitana-Roma, ad esempio. Mentre la critica a difesa del prodotto è aggrappata alla vittoria dell’Empoli in casa della Juventus per provare a dimostrare che tutto può succedere. Ci permettiamo di manifestare il nostro scetticismo.

È dura togliersi di dosso quella sensazione di periferia quando ci si sintonizza – non senza difficoltà – sulle partite della Serie A. I ritmi sono mediamente bassi. Lo spettacolo offerto modesto. E più è modesta la caratura media delle partite, più enfatici sono i toni di telecronache che sembrano provenire dallo spazio. Ovviamente anche noi giornalisti rientriamo nella mediocrità, ne siamo alfieri.

Verrà la povertà e avrà gli occhi della Serie A. Eccola la sensazione. La sensazione è della povertà. La povertà la scorgi negli stadi. Nelle immagini delle persone in fila perché non si riesce a smaltire una coda per mostrare il green pass. La scorgi nei terreni di gioco. È uno spettacolo musicale di seconda fila. Non siamo ancora al concerto del protagonista de L’uomo in più nel paesino dimenticato. No. È persino peggio. Siamo alla fiera paesana che prova a convincersi di essere la convention più figa dell’universo. Mentre da lontano s’odono echi di Mbappé, Messi, Ronaldo. Di business.

La povertà è arrivata perché il calcio italiano ha un problema gigantesco. Non ha un management. Pullula di sprovveduti. Di dirigenti che ne sanno quanto noi di finanza, di sviluppo aziendale, di marketing. Sono però attorniati da questa grancassa mediatica che pompa il tutto probabilmente anche per darsi coraggio.

La vittoria dell’Italia agli Europei certifica che il Paese non ha problemi di materia prima calcistica. Continua a sfornare talenti, in campo e in panchina. Ma non ha una organizzazione in grado di trasformare questo privilegio in vantaggi sistemici. In ricchezza. Che non è una parola di cui vergognarsi.

La vicenda Cristiano Ronaldo è emblematica. Come ha giustamente scritto Sconcerti, la Juventus ha provato a compiere il grande salto e poi si è arresa. Si è ritrovata ribaltata, come peraltro ampiamente prevedibile. Non c’è nessuno che metta in discussione la masochistica gestione di Andrea Agnelli, nemmeno nella loro azienda. Il calcio – in realtà non solo il calcio – in Italia prescinde dai risultati, impera la stagnazione. Fai bene o fai male, è praticamente la stessa cosa. Questo rende impossibile qualsiasi vaga speranza di crescita e di miglioramento.

I club di Serie A sono indebitati fino al collo. E sì, il Covid ci ha messo del suo. Mai quanto la insipienza, la inadeguatezza e la mancanza di conoscenza dei propri dirigenti e presidenti. Quando si tratta di bussare a soldi a Pantalone, il calcio si bea di essere una delle principali aziende del Paese. Poi, però, si persevera nella gestione della serva. Con tutto il rispetto per le serve che almeno sapevano far di conto.

Anche la vicenda Dazn è eloquente. Sì, lo streaming è il futuro. In realtà è il presente da un bel po’, da anni, qualsiasi famiglia vive con lo streaming (o comunque un bel po’ di famiglie). Ma quello di Dazn è traballante, dà problemi (pochi o grandi che siano). La Serie A vi si è aggrappata perché, preda di grandeur, ha rifiutato sdegnosamente l’operazione fondi promossa dall’unico vero manager che si è affacciato nel calcio italiano: Paolo Dal Pino che (apriamo una parentesi) ora però, francamente, dovrebbe prendere atto della propria diversità e fare la valigie. Un manager non c’entra niente col calcio italiano e la sua idea di capitalismo. Riprenda la sua carriera.

Tutto questo proviamo mentre guardiamo le partite di Serie A, anche del nostro Napoli. Non ce ne vogliano i protagonisti che lavorano, sudano, lottano, fanno del loro meglio. Ma tre anni fa giocavamo alla pari col Psg. Ora siamo proiettati in un’altra dimensione, lontana anni luce.

Eppure il campo è l’ultimo anello della catena. È l’azienda calcio italiano che va ristrutturata, con interventi seri, con l’ingresso di manager qualificati, di professionisti della conoscenza. Con la volontà di renderlo realmente una attività imprenditoriale. Qualcosa si scorge. La Roma, il Milan, l’Atalanta sembrano club che lavorano per un futuro, l’Atalanta già da qualche anno. Al momento, è poco per togliersi di dosso quella sensazione di vivere un circuito minore. Di essere quelli che giocano in attesa dei grandi eventi. Quando si accendono i riflettori, quelli veri, al calcio italiano viene detto di andar via, di accomodarsi in tribuna e guardare. State qui buoni. E, se possibile, imparate.

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