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Operazione Locatelli, Sassuolo e Juventus hanno agito in linea con il capitalismo italiano

Negli Stati Uniti Carnevali sarebbe stato licenziato in tronco ma lì non sanno che cosa sia il capitalismo di relazione, non hanno mai avuto un’Alitalia

Operazione Locatelli, Sassuolo e Juventus hanno agito in linea con il capitalismo italiano
Db Milano 26/07/2017 - presentazione calendari serie A 2017-2018 / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Giovanni Carnevali-Giuseppe Marotta-Carlo Tavecchio

Mentre è sempre più difficile definire i confini di un sistema capitalista – con i sociologi che cercano di distinguere tra soziale marktwirtshaft, capitalismo di stato e così via – un argomento comune è che il capitalismo statunitense sia “estremo” e che il suo ripudio delle reti di sicurezza sociale vada contro principi fondamentali come la solidarietà e la compassione.

A volte è difficile sostenere il contrario. Ma l’America rimane in prima linea nell’innovazione e le aziende qui prosperano in assenza di burocrazia ed eccessiva regolamentazione – uno dei motivi per cui le dinastie sono rare e la maggior parte dei milionari e miliardari oggi sono imprenditori del ramo tecnologico che si sono fatti da soli e non rampolli di famiglie ricche.

Va da sé che l’innovazione – e la concorrenza feroce – producono vincitori e vinti, ma il concetto stesso di vincere e perdere è centrale nello stile di vita americano ed è universalmente accettato purché alle persone vengano date pari opportunità (che succeda o no al giorno d’oggi è materia di discussione).

Nello sport, l’idea stessa di un sistema capitalistico e competitivo con pari opportunità è esemplificata dalla NBA dove le squadre dividono equamente i diritti tv e hanno un tetto salariale. Non ci sono commissioni di trasferimento, solo contratti che possono essere scambiati e free agent che possono essere firmati. C’è un draft annuale che assicura che nessuna squadra sia mai preclusa dalla creazione di un roster vincente. E c’è una tassa di lusso che punisce i big spender, piuttosto che premiarli. In un sistema del genere, i migliori direttori generali sono quelli che massimizzano i risultati a parità di risorse, ed è facile vedere come questo premii i più capaci.

L’Italia funziona diversamente. Il capitalismo italiano è, come quello tedesco, un sistema corporativo. Non è capitalismo di stato perché il governo raramente mantiene il controllo diretto delle aziende. Ma è fortemente sbilanciato verso le pubbliche relazioni ed è strutturato attorno a un gruppo di “leader di settore” – per lo più famiglie che hanno fatto soldi generazioni fa – che controllano i mercati, colgono le opportunità grazie a informazioni privilegiate, monopolizzano il flusso di denaro dal sistema bancario ed esercitano “regulatory capture.”

Si pensi al manager non particolarmente dotato che è stato responsabile dell’organizzazione della Coppa del Mondo del ’90 in Italia, nonché Ceo di Alitalia e Cinzano, che è ancora preso in considerazione per posizioni di alto livello in aziende italiane e che è stato in grado di strappare una licenza per far circolare i suoi treni su una linea ad alta velocità pagata dallo Stato, facendo direttamente concorrenza alla società statale. Si pensi alla pressione di un ex ministro del governo su una grande banca per spingerla ad acquisire una piccola banca locale in crisi. Si pensi a un’informazione riservata sui tempi di una nuova regolamentazione, da cui ha tratto profitto un tycoon facendo un’operazione di successo in borsa. Si pensi agli investitori che hanno investito denaro in un’azienda che realizza costosi occhiali da sole, oggi quasi fallita, perché di un rampollo di una famiglia molto nota: probabilmente hanno anticipato le perdite ma non si sono trattenuti dall’investire, e non perché avessero mai pensato di poterci guadagnare. Invece, molto probabilmente credevano, forse a ragione, che investire in quella società li avrebbe aiutati a cementare i rapporti con la “cerchia eletta.”

In questo contesto, come potrebbe una lega sportiva non riflettere la cultura del paese? Dove le relazioni contano più del tuo prodotto o servizio per il tuo successo imprenditoriale, dove l’innovazione è confinata a piccole nicchie, dove le aziende più innovative vengono acquisite da fondi esteri non appena raggiungono una dimensione decente perché il pool di capitale nazionale è focalizzato sul finanziamento di iniziative fallimentari.

In un paese del genere, è perfettamente normale che il presidente di una società calcistica minore offra – come un bel favore – uno dei suoi migliori giocatori alla squadra che domina il campionato – in cambio di nulla di tangibile, almeno a prima vista. È perfettamente normale, come è perfettamente normale che una compagnia aerea risucchi dieci miliardi di capitale pubblico senza alcuna prospettiva di redditività, sotto la guida illuminata del manager di cui sopra.

In un paese del genere, sarebbe assurdo pensare che un campionato sportivo possa funzionare in altro modo. È radicato nella cultura “competitiva” delle squadre italiane, dei tifosi e degli elettori. Lo si può facilmente capire dalla reazione dei tifosi napoletani all’ultima partita dell’anno scorso. Il Verona, dicono, avrebbe dovuto prendere la partita con più leggerezza visto che non aveva nulla da guadagnare.

È naturale se si guarda al sistema politico, dove nessun partito vince le elezioni e nessun partito le perde: si tratta sempre di trovare un compromesso.

Immaginate per un momento il Sassuolo come una squadra in uno sport americano. Non rinforzerebbe mai una squadra che vedrebbe legittimamente come concorrente: il suo direttore generale sembrerebbe un idiota e verrebbe licenziato in tronco. Ma in un sistema in cui la vittoria è disapprovata e la vittoria assoluta di solito è vista con disprezzo, in cui il capitalismo non mira a cacciare il tuo concorrente dal mercato, ma a intrattenere relazioni con lui, dove le squadre dovrebbero “deporre le armi” se non hanno motivo di lottare, in quel sistema Sassuolo e Juve hanno fatto esattamente quello che ci si sarebbe aspettato.

Sassuolo acted according to Italian capitalism

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