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Pupi Avati: «Non sopporto chi ha sul viso la sconfitta. Bisogna sempre sentirsi inadempienti verso la vita»

Al Fatto: «Tognazzi mi ha insegnato che per conoscere e far nascere fiducia nell’interlocutore bisogna dichiarare una debolezza. Nella vita è fondamentale mentirsi»

Pupi Avati: «Non sopporto chi ha sul viso la sconfitta. Bisogna sempre sentirsi inadempienti verso la vita»

Il Fatto Quotidiano ospita una lunghissima e altrettanto bella intervista a Pupi Avati. Il regista, oggi 82enne racconta se stesso ed il suo rapporto con il set e con gli attori.

«Punto sugli aspetti umani. È fondamentale, ed è necessario essere pronto a cambiare ruolo a seconda della situazione: quindi divento parroco, medico, papà, nonno, fratello maggiore, o qualunque altra trasposizione necessaria per permettere all’interlocutore di fidarsi. E immediatamente».

Ad insegnarglielo è stato Ugo Tognazzi.

«La prima volta che ci siamo conosciuti mi prese subito da parte e con una confidenza inaspettata mi raccontò una vicenda personale e in teoria indicibile, un qualcosa che forse uno potrebbe confessare solo a un amico. Dopo aver terminato questa confessione capii che si aspettava lo stesso da me, cercava una dichiarazione di debolezza. Di sfighe, di cadute e guai già ne possedevo un menu ricchissimo, quindi fu semplice ‘l’anch’io’. Questa tecnica di conoscersi attraverso una dichiarazione di debolezza è di un’efficacia assoluta, si diventa immediatamente amici. Da allora l’ho adottata».

All’epoca, dice, era reduce da due film disastrosi.

«Ugo intervenne nella mia vita con modalità miracolistiche; credo ai miracoli, quindi si avverano, chi non crede è evidente che non li merita. Questo può apparire anche un discorso sgradevole; insomma, in quel momento Tognazzi era l’attore più quotato, io il peggior regista, quindi il dialogo era decisamente sbilanciato, eppure decise di girare con me ‘La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone’, quell’incontro era nella sua casa al mare, dove organizzava il torneo di tennis, ed ero emozionato, con un po’ di tremolio».

Avati dice di non sopportare chi si presenta ai provini con l’aria da sconfitto.

«Non sopporto chi ha sul viso la sconfitta, magari entra nel tuo ufficio con lo sguardo obliquo e nell’animo la convinzione che vanno avanti solo i raccomandati: questa categoria di persone non vede l’ora di ottenere un “no” per avvalorare la propria visione negativa del mondo, dove vince chi va a letto con il produttore, e crearsi un alibi per non impegnarsi più di tanto».

Non è che i raccomandati non esistano, chiarisce:

«Ma le persone che alla fine ce la fanno, non sono quelle lì: chi utilizza la scorciatoia dura poco. Uno deve sempre sentirsi inadempiente rispetto alla vita».

Lo stesso capita anche a lui.

«Avrei potuto impegnarmi di più, ho la sensazione di non aver ancora girato il film della mia vita, ed è qui che trovo la forza per continuare».

Il regista è d’accordo con Bruno Voglino, secondo il quale gli attori sono fragilissimi.

«Ha ragione. I grandi artisti con i quali ho lavorato sono persone profondamente timide; la timidezza è una delle opportunità per diventare un osservatore dell’esistenza altrui, mentre gli estroversi, quelli che alle feste dominano, rimorchiano, raccontano barzellette, si risolvono nella vita e dalla vita non raccolgono quasi niente».

Si definisce

«come uno che nelle serate si piazza in un angolo, osserva, terrorizzato che qualcuno lo interroghi; i migliori attori sono timidi o ex timidi, in grado di attraversare la scuola del dolore: nel pugilato chi perde può raccontare il match, perché ci ha pensato, rimuginato, analizzato e sofferto. Sono i film d’insuccesso che ti permettono di crescere».

Non a caso, il suo attore preferito è Haber.

«È il più bravo, e copre la timidezza con una finta arroganza. Ne ‘Il signor Diavolo’ ha combinato qualcosa di sbagliato, e l’ho redarguito davanti alla troupe. Il suo sguardo mortificato raccontava un’altra realtà, ed è la sua bellezza: con lui è tutto finto quel che appare. E sul set porta la verità. Se uno ha degli attori non in grado di offrire il meglio di se stessi, basta inserire Alessandro e tutto diventa vero. Anche Tognazzi era così: entrava in una scena ed era come un coro di montagna, che permetteva agli altri di intonarsi insieme a lui».

Cremonini lo ha definito “straordinario e un po’ bugiardo”.

«Nella vita è fondamentale mentirsi: se la mattina, quando mi alzo, dovessi fermarmi davanti all’immagine da vecchio riflessa nello specchio, è evidente che non andrei sul set. Invece uno si racconta quello che non è, e poi si affida all’auto-illusione che il film che stai girando metterà in discussione la storia del cinema mondiale. Oramai si è rinunciato all’ambizione, non ci sono più persone che ti dicono “questa volta prendiamo l’Oscar”».

Lui ci è andato vicino.

«Con ‘Il testimone dello sposo’ siamo arrivati nella cinquina del Golden Globe e a Los Angeles mi avevano annunciato la vittoria: al momento della proclamazione del miglior film straniero, mi sono alzato, mi sono mosso, e nel frattempo sentivo nominare il titolo di un altro. Una sensazione agghiacciante. La notte mi sono trovato a passeggiare con mio fratello per le strade della città augurandomi di finire sotto un camion».

Di chi avverte l’assenza? Gli viene chiesto. Risponde:

«Di me stesso: non so pensare alla mia di assenza, e non perché mi ritenga necessario, ma perché so che nel momento in cui non ci sarò, causerò un dolore infinito alle poche persone che mi sono vicine».

E, infine, si definisce alternativo.

«Sono veramente e volutamente alternativo: ho sempre cercato di stare da una parte che fosse solo mia».

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