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La Uefa ha protetto l’idea che i giocatori ungheresi non fossero lì a rappresentare uno Stato cattivo

POSTA NAPOLISTA – L’Uefa avrebbe creato un precedente politico: autorizzare il Paese ospitante a lanciare un messaggio urbi et orbi di respingimento e di rifiuto per il Paese ospitato

La Uefa ha protetto l’idea che i giocatori ungheresi non fossero lì a rappresentare uno Stato cattivo
Monaco di Baviera (Germania) 23/06/2021 - Euro 2020 / Germania-Ungheria / foto Uefa/Image Sport nella foto: esultanza gol Adam Szalai
Caro Napolista, dall’Italia si guarda usualmente la Germania come una specie di monolite cui un mix “esistenziale” di perseveranza ed efficientismo permetterebbe di raggiungere sempre (o quasi) risultati lusinghieri. E in questo senso la nazionale di calcio, “la Germania” come concetto calcistico, in Italia è rispettata in quanto entità che, fedele immagine del proprio Paese, tiene duro sempre e comunque e, lavorando e sudando, riesce a mettere in cascina anche quando non ne ha. O ne ha poco.
Qui (in Germania), questa visione mi risulta sempre più autoconsolatoria, perché, senza tastarne il polso, esalta virtù che poi – in fondo in fondo – si è ben contenti di non praticare.
Qui (in Germania) devo dire che la politicizzazione della partita dell’Allianz Arena contro l’Ungheria è stata dettata con potenza misurata e certificata dalla politica e quindi dalla televisione di Stato detentrice esclusiva dei diritti televisivi degli Europei.
A mio modo di vedere, la levata di scudi in favore dell’illuminazione-arcobaleno dell’Allianz Arena è stata un’operazione di accerchiamento intimidatorio con cui la città e lo Stato ospitanti hanno provato a mettere il vestito buono per dire ad un pubblico molto vasto: “Noi siamo quelli buoni e chi non si allinea si autoqualifica come cattivo”.
Bene ha fatto l’Uefa, che pure non è un’associazione caritatevole o interessata a qualcosa che non faccia i suoi interessi, a dire di no. E questo perché, se avesse autorizzato l’illuminazione-arcobaleno dell’Allianz Arena, l’Uefa avrebbe creato un precedente politico: quello di autorizzare il Paese ospitante a lanciare un messaggio urbi et orbi di respingimento e di rifiuto per il Paese ospitato. Perché è questo che l’altra sera, a Monaco di Baviera, aveva avuto in programma di fare la Germania.

Ieri
 sera la posta in gioco era quella: al di là delle chiacchiere sul valore universale della tolleranza per gli orientamenti sessuali, la Germania di Angela Merkel ha provato, senza riuscirci, a usare il palcoscenico internazionale di un grande evento calcistico per lanciare un segnale politico contro uno Stato sovrano e – di riflesso, inevitabilmente – contro la squadra che, in loco, rappresentava quello Stato.
Se il calcio, nonostante tutto, riesce ancora ad essere occasione di incontri, di abbracci e di reciproco riconoscimento tra persone che rappresentano Stati che si detestano o che si fanno perfino la guerra, questo succede a mio avviso anche perché spesso, molto spesso, come anche mercoledì sera all’Allianz Arena di Monaco, si riesce nel non facile compito di chiarire che anche un simbolo che si pretende essere metapolitico e universale come l’arcobaleno in difesa della libertà degli orientamenti sessuali, se brandito in un certo modo, in un certo istante e in un certo spazio, può perseguire una finalità politica arrogante, aggressiva, violenta e vigliacca. Facendo passare per messaggio universalmente edificante qualcosa che è stato confezionato solo per isolare, intimidire e umiliare le persone che in quel momento si trovano lì a rappresentare lo Stato “cattivo” e che si ritrovano costrette ad essere non le persone che sono, ma le inanimate emanazioni di uno Stato cattivo.
La potenza non riposa mai sull’innocenza e l’altra sera l’arcobaleno delle minoranze, pur non imponendosi nella modalità che la Germania-Stato avrebbe voluto, è riuscito a farsi valere come dodicesimo uomo della Germania-squadra.
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