ilNapolista

Quale cosmopolita, Roma che abbraccia Mourinho è Roma che ha sempre bisogno di Cesare

La vocazione internazionale la fanno i tituli e negli ultimi cinque anni ne ha vinti più Sarri di Mou. Avrei voluto lui sulla panchina della mia Roma

Quale cosmopolita, Roma che abbraccia Mourinho è Roma che ha sempre bisogno di Cesare
l'immagine di www.elvislives.it

C’è già una dimensione mistica della calata di Mourinho a Roma. A Testaccio in 24 ore ci hanno disegnato un murale: Mou romanista su una Vespa bianca; Special One in 50 Special. A Trastevere i geniacci di Elvis Lives – un negozio di abbigliamento hipster-romantico che gioca su stereotipi e tradizioni capitoline – hanno stampato dei santini meravigliosi: Mou in tunica giallorossa con in mano le chiavi della città, sotto l’invocazione: “Ovunque proteggimi”.

Io osservo con un senso di allegria e spaesamento. Un po’ empatia e un po’ inquietudine. La capisco questa sbornia collettiva. La accarezzo: vorrei partecipare. Ci sono col cuore ma non con la testa. Penso: ahò, amo preso Mourinho. E dopo cinque minuti: è chiaro che Mourinho è bollito. Litigo con i miei amici sul gruppo whatsapp della Roma. Faccio la rassegna dei tifosi fomentati su twitter. Cerco opinioni dappertutto. Leggo pure i fondi metapolitici di Claudio Cerasa: ecco, persino Cerasa. Da lettore e simpatizzante del Napolista – nostalgico di un gemellaggio che non ho mai vissuto – mi ha incuriosito e divertito la vostra lettura della vicenda. Anche su Mourinho mi pare applichiate una dicotomia che è frequente nelle vostre pagine (come forse era già nello spirito del Te Diegum): la frattura tra dimensione provinciale e cosmopolita; popolo contro élite, Roma – o Napoli – contro Europa (magari senza arrivare alla perversione di Cerasa, per cui alla fine è Mourinho contro Raggi. Vabbè). In voi risuona un fremito nostalgico che vi porta a Benitez e Ancelotti. In quest’ottica l’ingaggio di Mourinho sarebbe un colpo di genio, il sussulto di un club in crisi che rivede la luce aprendosi al mondo, con un tecnico di spessore internazionale. Roma rinuncia alla sua vocazione provinciale. “Roma Pupona” la chiama Cerasa. Non a caso “Pupone” era il soprannome affibbiato a Totti da chi non gli voleva bene e trovava ridicola la sua popolarità romanesca: un soprannome che Totti detestava.

Io penso il contrario. La vocazione internazionale non la fa la tuta o la battuta pronta in conferenza stampa. La fanno i tituli, d’accordo, insieme alla freschezza delle idee sul calcio. I primi per Mourinho sono un ricordo del passato, ma almeno recente: l’ultima vittoria è l’Europa League col Manchester United nel 2017, una squadra costruita con altri bilanci, altri obiettivi e altri orizzonti. Infatti fu licenziato. Le sue idee invece sono passato remoto: sono ferme a una dozzina di anni fa, chi ha seguito da vicino la sua carriera scrive che l’evoluzione tattica di Mourinho è semplicemente inesistente.

Fino a un secondo prima dell’improvviso annuncio del suo ingaggio, la panchina della Roma pareva destinata a Maurizio Sarri. Questo sito ha portato avanti una crociata intellettuale – che non condivido ma di cui riconosco il coraggio – contro la retorica sarrista. Ma al di là della retorica ci sono alcuni fatti: nell’ultimo lustro, mentre Mourinho metteva in fila licenziamenti e spogliatoi polverizzati, Sarri ha vinto uno scudetto, un’Europa League e ha fatto il (famigerato?) record di punti della storia del Napoli. Nel triennio napoletano e nella prima parte della stagione al Chelsea ha fatto giocare un calcio tra i più attraenti e riconoscibili del continente. Mi aspettavo e desideravo Sarri alla Roma perché avrebbe combinato un respiro popolare nel rapporto con la città e una vocazione internazionale nell’idea di calcio, portando valore a una società indebitata e ad un organico tecnicamente modesto.

La Roma che abbraccia Mourinho a me non pare si apra al mondo, ma il contrario: si riconosce nella suo carattere eterno e minuto, nel suo spirito e nelle sue rovine. Una Roma che ha bisogno di un duce, un cesare o un papa, di una figura violenta e sacrale, di una mascella serrata alla Capello, per domare le sue pulsioni autodistruttive. È la Roma del mai ‘na gioia che si consegna all’aura mistica del salvatore vincente. È la Roma della comunicazione cialtrona, delle mille radio, del ronzio asfissiante, insopportabile, micidiale, che fa cadere i capelli e crescere la barba a tutti gli allenatori perbene: se ne vanno da qui invecchiati di dieci anni in due stagioni. Forse è vero: serviva uno stronzo. Mou alla Roma potrebbe persino funzionare. Non una scelta di coraggio, ma la mossa della disperazione, un rilancio tragico o geniale. L’ultimo disastro o un’esperienza esaltante. Ovunque proteggici, da noi stessi.
ilnapolista © riproduzione riservata