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Baggio è l’Agassi italiano: «Lasciare il calcio mi ha ridato vita e ossigeno. Stavo soffocando»

Il trattore, la natura, l’ossigeno. È rimasto un unicorno in un mondo di Totti e Ibra che non vogliono smettere. Lui ricorda il tennista

Baggio è l’Agassi italiano: «Lasciare il calcio mi ha ridato vita e ossigeno. Stavo soffocando»

Nei boschi vicino Gorizia, era l’agosto 2012, fu avvistato un puma. Un puma a zampa libera in Italia ha solo un modo per non essere la notizia del giorno: che arrivi Roberto Baggio, col fucile carico a pallettoni, e si proponga di risolvere il problema. «Ve lo abbatto io in due giorni». Farsi cacciare da un Pallone d’Oro non è da tutti i puma.

Roberto Baggio, adesso, vive una vita d’eremo e confino. O almeno la percepiamo tale, sol per il fatto che uno così – che ha fatto la storia del calcio – il calcio ha deciso che non fosse la sua vita. Ha la terra, la campagna, spacca la legna, usa il trattore, la sera – dice – va a dormire così stanco che gli gira la testa. Netflix sta lanciando il film sul “Divin Codino” mentre il suddetto divino zappa. Si gode le piccole cose, ancora parole sue. E poi, definitivo:

«Lasciare il calcio mi ha ridato vita e ossigeno. Stavo soffocando»

Nell’intervista al Venerdì di Repubblica che ce lo riporta alla memoria come si fa con i vecchi amici che non si sa che fine abbiano fatto, quelli che non sono su Facebook (“te lo ricordi Roby?”) raddoppia il concetto:

«Totti non voleva smettere, io non vedevo l’ora»

Il filone è lo stesso – il mito celebrato da documentari e serie tv, ognuno col registro più aderente – ma con una lettura dell’esistenza agli antipodi. Uno, Totti, fatto di pallone tanto da arrotondarsi la carriera fino a un post un po’ – molto – traumatico. L’altro che non ne poteva più quando ancora gli mancavano una decina d’anni buoni di estro, vittorie e record.

Nella parentesi compresa tra questi due eccessi c’è un vuoto da riempire, speso reso a perdere: la vita nel calcio, e fuori. Chi ne fa una tossicodipendenza, e chi va in overdose subito, non regge. E poi se regge, come Baggio, passerà il resto del tempo a raccontarsi come sia un dono non fare più parte di quel mondo anabolizzato.

«Quelli che senza pallone si sentono appagati e felici sono dei falliti? Faccio la cosa più bella, sono a contatto con la natura. Spacco la legna, uso il trattore, l’escavatore, e la sera sono così stanco che mi gira la testa.»

Anche quando parla di Paolo Rossi, il suo mito da bambino, lo fa con un tono da reduce: “Non è giusto, era riuscito a rifarsi una vita. Meritava più tempo”. Per Baggio il calcio è stata una buca, con pareti altissime. Un carcere. Uscirne e “riuscire a rifarsi una vita” dovrebbe garantirti un bonus del destino. La levità era tutta nei nostri occhi. Ciechi.

«Stavo troppo male, dolore fisico: quando da Brescia rientravo a casa non riuscivo ad uscire dall’auto e chiamavo mia moglie che mi aiutava ad aggrapparmi al letto»

«Se mi vuoi bene uccidimi», disse nemmeno ventenne alla mamma, guardandosi la gamba destra tumefatta dopo la seconda operazione chirurgica.

La rinascita agreste dell’uomo Baggio, al di là del particolare, dell’acacia che va potata, del concime da dare alle piante, ci strattona. Nel frattempo ci siamo abituati allo sport del mancato distacco, dei campioni intergenerazionali che non schiodano più: Valentino Rossi, Ibrahimovic (“lui è come Francesco”, dice Baggio), Federer. Così pervicacemente ancorati alle loro carriere da non riuscire a distinguerli. Fatti della stessa sostanza del sogno realizzato. Baggio è un unicorno: non fosse per il buddismo e la riprogrammazione ascetica della sua vita, starebbe dalla parte degli Agassi. Di chi s’è fatto divorare da un mostro invisibile. La dittatura del talento, anche la bestemmia di subirlo nonostante tutto.

Nel 1985 Baggio riceve il Guerin d’Oro come miglior giocatore della serie C, e la chiamata della Fiorentina. Ha 18 anni, e davanti ad un contratto ricchissimo, a un giornale locale dice: «Continuerò la mia vita, calcio e fabbrica. Spero solo che mio padre mi conceda qualche ora di riposo in più».

Calcio e fabbrica. Poi un tutt’uno, per molti versi. Chiaro che ne derivasse un’asfissia. Come molti predestinati, non ha fatto in tempo a crescere. Aveva gli scout di tutta Italia addosso mentre lo bocciavano in seconda media. E’ una sorte comune a tanti campioni, incapaci poi di rimettersi in sesto, traditi da un’assuefazione al “troppo” di tutto. A Baggio hanno sempre riconosciuto una “giusta distanza” dalle cose. Lo chiamavano “la personcina” compagni e allenatori, per il piglio dimesso, la modestia. Il prequel del trattore, dell’escavatore, della zappa. Della pace, dell’ossigeno.

Qualche tempo fa finì in pasto ai social la sua Panda contadina. Crosetti scrisse che “la sua utilitaria verde militare ci racconta una scena che nella campagna veneta è quotidiana, ma che nel mondo della moderna pop art calcistica ci sembra quasi surreale. Come se il dio fosse uno di noi”.

Torna alla mente – per evidente riproposizione mediatica – l’addio al calcio di Totti. Quel giro peripatetico dell’Olimpico, la lettera prolissa, le lacrime del pubblico. Una colla, un mastice. Baggio comprò una fazenda in Argentina per andare a caccia. Poi nell’agosto 2010 non si sa come – il calcio è un magnete – riuscirono a convincerlo a diventare presidente dell’area tecnica della FIGC. Era il nome-fantoccio che serviva a far dimenticare la fresca umiliazione dei Mondiali sudafricani. Baggio presentò un papello di 900 pagine, un ambizioso progetto di riforma che si chiamava “Rinnovare il futuro”. Tre anni dopo il futuro da rinnovare era rimasto al passato. E lui si dimise, per sempre. Dal calcio, proprio.

Usa le mani, ora, invece che i piedi. La metafora è sua. La gente che l’amava, non ha mai smesso. Lui ha cominciato a volersi bene dopo aver smesso di giocare a calcio.

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