Al Lille non ha avuto timore di raccogliere l’eredità di Bielsa, oggi è primo in classifica. Gioca un calcio contemporaneo ma non dogmatico

C’è un nome su tutti, tra quelli accostati alla panchina azzurra, che mi scalda il cuore. È Cristophe Galtier. Chissà se, in effetti, Cristophe Galtier è o meno nelle aspirazioni di De Laurentiis. Non lo sappiamo, ma dovrebbe esserci anche per un semplice status economico: guadagna 2,2 milioni (circa) l’anno (fonte l’Equipe) ed è in scadenza giugno 2021. Attualmente Gattuso incassa un milione e quattrocentomila, e, all’epoca (che oggi ci appare come l’età del ferro) l’eventuale rinnovo si aggirava proprio sulle cifre evidenziate poc’anzi riguardo il francese.
Chi è Galtier?
“Si ma chi è questo Galtier?” È l’allenatore di un Lille che dopo anni è ritornato a rivendicare il proprio soprannome “Les Dogues” (i mastini di Francia). Quelli della Région Hauts-de-France (famosa tra l’altro per le moules-frites = cozze e patatine fritte) dopo 32 partite di Ligue 1, a sei giornate dalla fine, comandano la classifica e guardano dall’alto in basso i parisiens. (Qua una sua intervista)
[Punti conquistati 69 (3 in più del PSG, superato per 1 a 0 a Parigi solo dieci giorni fa); Vittorie 20; Pareggi 9; Sconfitte 3 (5 in meno dei rivali, arrivate contro Angers, Brest e Nimes, tre squadre della parte sinistra della classifica); Gol fatti 53 (4° miglior attacco); Reti subite 19 (miglior difesa di Francia)]
Posizione raggiunta al culmine di un biennio (per tenerci stretti) in cui il club ha monetizzato per quasi 230 milioni di euro, spendendone nello stesso periodo circa 80 in meno, seguendo la filosofia “rinnovare la rosa non vuol dire indebolirsi”. Concezione elevata alla massima espressione dal duo Luis Campos (Ds) e, per l’appunto, Cristophe Galtier since 2017 (anno d’insediamento di entrambi).
Cristophe è arrivato quasi nell’anonimato. Già ben voluto in città, perché a Lille ci è passato da giovane difensore dal 1987 al 1990, collezionando 93 presenze. Ritiratosi nel ’99, si è messo la tuta l’anno successivo, accettando per nove anni il ruolo di vice. Nel 2009 sfrutta l’occasione concessagli dal Saint Etienne che lo promuove a tecnico della prima squadra, la coglie e guida Les Verts per 8 anni. Per quattro (dal 2012 al 2016) tiene i suoi tra le prime sei di Francia e per tre (2013-2016) prova a sfondare bene o male in Europa League. Vince una Coppa di Lega francese nel 2013, anno in cui è eletto miglior allenatore della Ligue 1 insieme a Carletto Ancelotti (bisserà questo premio individuale con la sua nuova squadra nel 2019).
Nel 2017 arriva al confine col Belgio per sostituire Bielsa. L’eredità del Loco non gli sposta nemmeno un sopracciglio. Il suo undici è da subito frizzante, esalta le qualità degli uomini offensivi senza rinunciare all’equilibrio: salva la squadra e non chiede un acquisto, ciò che gli danno quello cucina. L’anno successivo arriva secondo, nel 2020 quarto e, ad oggi, lotta per il titolo.
Ciò che colpisce del Lille è il quadro, il complesso. La guardi e ti rendi conto di osservare una squadra ben organizzata, compatta in difesa, veloce e dotata di ottima tecnica individuale: europea!
La mano del tecnico è visibile ma delicata, antidogmatica, non soffoca, lascia vivere. Ogni giocatore, senza esserne strozzato, svolge i compiti previsti dalla struttura riuscendo a potenziare sia il proprio valore sia quello dei compagni. In pratica un sogno comunista si compie e non ha nulla a che vedere con il colore della maglia, ma soltanto con il concetto che ogni singolo è al servizio del collettivo e viceversa.
Come gioca Galtier?
Il modulo di base ti riporta ad un’antica concezione lineare del calcio, quanto mai moderna, perché fluida: un 4-4-2 che in fase di possesso si trasforma in un 2-3-2-3 con i due difensori centrali a comporre la linea difensiva; due terzini e un mediano a centrocampo; l’altro mediano e un esterno sulla trequarti, dietro al tridente formato dall’altro esterno, la seconda punta e il centravanti.
Il portiere è alto, agile, istintivo, ricorda Meret. Il primo centrale è forte fisicamente e bravo di testa, l’altro ha una buona tecnica. I due terzini devono saper difendere e avere gamba, nulla più (Di Lorenzo e Aïmen Moueffek andrebbero più che bene). Il mediano di centrodestra è forte fisicamente, quello di centrosinistra è dinamico e assicura inserimenti. Le ali alte giocano a piede invertito, il primo è molto bravo nei movimenti senza palla (come Fabian ai tempi d’Ancelotti, Zielinski anche con Sarri), il secondo nell’1 vs 1 e nel tiro da fuori (Insigne). In attacco una seconda punta veloce e libera di muoversi su tutta la trequarti (Osimhen è già stato impiegato da Galtier in questa posizione, o Lozano) affianca il centravanti vintage, cinico sotto porta.
Come si fosse in un’epoca bucolica ed idilliaca, si rifugge dalla costruzione dal basso praticata solo se non si subisce il pressing degli avversari (quasi mai). Si è autenticamente diretti, come il vino. Lo scopo è di servire o una delle due punte a muro o uno dei due esterni, con i piedi sulla linea laterale. In ogni caso, se si parte dal portiere lo scopo non è consolidare uno sterile, quanto attuale e obsoleto, possesso ma renderlo strumento d’attacco (rispettandone l’origine): i due terzini salgono sulla linea di uno dei due mediani, che si incarica di ricevere il pallone tra i difensori centrali, e una delle due ali viene incontro.
Tutti gli altri devono andare avanti! È costante l’accentramento dei due esterni alti, per lasciare spazio ai terzini di sovrapporsi e/o ricevere le sponde. Da questa fase in poi si cerca l’1 vs 1, come nel calcio di chi non ha paura, per trovare il cross, il tiro da fuori o l’imbucata centrale per le punte.
La fase di non possesso è il frutto della globalizzazione, la difesa all’italiana assume un accento anglofono e intende a livello intermedio (B1) la lingua del gegen-pressing. Ci si dispone con due linee da quattro, solo agli attaccanti è permesso di non ripiegare. Durante la prima azione difensiva, si cerca il recupero del possesso attraverso il pressing alto delle due punte e dei due esterni. L’obiettivo è la riconquista del pallone nei secondi successivi al momento in cui è stato perso. Se ciò non riesce si scappa all’indietro per formare le suddette linee strette, compatte e vicine, che accettano di lasciare 25-30 metri di campo alle spalle, per far cadere gli avversari nel fuorigioco, creando densità in mezzo al campo a discapito dello spazio concesso sulle fasce che andrà coperto solo in un secondo momento con lo scaglionamento dei mediano. Quando avviene il recupero lo scopo è far male in pochi secondi per vie centrali o innescare la corsa degli esterni alti e dei terzini sulle fasce, che poi non è altro che il mantra perpetrato dalle big europee, delle quali decantiamo le gesta senza sognare minimamente di vedere le nostre squadre accostarcisi.
Ritorno al futuro, all’impopolarità
Ecco cosa rappresenterebbe la scelta Galtier per il Napoli: un sottrarsi alla superbia, ri-prendere la strada maestra di una visione altra e contemporanea del football, cosa che a suo tempo rappresentò lo svincolo Benitez.
Significherebbe, per la società, porsi nei confronti della piazza nuovamente in vesti di monarca impopolare come quando tutto andava bene, e la competitività macchiata anche di player trading veniva prima degli umori.
Se la vittoria del titolo non è un’ipotesi, che si rifiuti il compromesso per arrivarci, l’inginocchiarsi ai paradigmi local-nazionali, l’accettazione del giochismo (o non giochismo), il crogiolarsi nella decadenza e nella riproposizione nostalgica, svilente e nociva di ciò che ci rendeva protagonisti in un passato medievale.
Galtier come l’opportunità di accettare il ridimensionamento (delle ambizioni) in realtà non accettandolo, affrontandolo con la consapevolezza di ciò che l’ha causato: la mancanza di aria nuova e di rinnovamento, il non aver afferrato al momento opportuno le occasioni di crescita sportiva-culturale.