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Il calcio non spiega più nulla di questa società. Ma resta di chi lo paga

È sfuggito di mano. Non è più rappresentativo e nessuno è più in grado di decrittarlo. Ma, al fondo, resta una verità che non vogliamo vedere

Il calcio non spiega più nulla di questa società. Ma resta di chi lo paga

“Grandi numeri di estranei riescono a cooperare con successo attraverso la credenza in miti comuni”.

Così Homo Sapiens, decine di migliaia di anni fa, diede inizio alla sua rivoluzione cognitiva, forgiando il linguaggio per inventare storie e intrecciare finzioni. Lo Stato. La Patria. Il Popolo. La Legge. La religione. Fino alle corporation. La globalizzazione. I colori della squadra del cuore. Tutte finzioni necessarie alla specie. La storia delle storie irreali è servita a saldare gli intenti e condividere obiettivi comuni, convivere in paesi, città e nazioni, o tifare per gli stessi colori. Il nocciolo dell’evoluzione del Sapiens – come scrive Y.N.Harari nel suo famoso bestseller – è in queste illusioni.

“Il calcio è una grande avventura psicologica collettiva” ricordò un altro grande intellettuale prestato a questo sport, alcuni anni fa, nel solco del medesimo ragionamento. Il pallone rientra a pieno titolo tra i più potenti simboli umani e i più allucinogeni poteri illusori a nostra disposizione. Questa intossicazione è il syn-ballein greco, lo scagliare assieme, fino ad assimilarli, qualcosa di piccolo, finito e maneggiabile da una mente umana e quanto è invece enorme, virtualmente illimitato nel tempo e nello spazio e dunque non-dicibile.

Ciò che la vicenda della Super Lega fa emergere è che questo non-dicibile è, oggi, a piede libero. La gabbia che lo conteneva è vuota.  Non incatenabile ad un contesto, il calcio è a rischio concreto di morire – perché, è bene ricordarselo, tutto finisce ed anche il calcio può sparire, nessuno si illuda sulla sua presunta immortalità. Se abbiamo nella mano sinistra un pallone a scacchi di 70 centimetri e 450 grammi, quali significati portiamo nella nostra destra? Questo è il punto di domanda, non banale, che le ultime ore hanno rilanciato. La risposta, al momento, parrebbe essere “non si sa”, checché ne dicano i fedeli difensori del sacro senso dello sport o i cinici magnati. Il calcio rimane ancora una bugia su larga scala per via della naturale immaterialità dei racconti che esso genera, ma ha smesso di essere un luogo mitico di significati condivisi già da un bel po’ di tempo. Miliardi di persone che lo seguono rimangono tra loro estranee.

Florentino Perez ed il suo manipolo di seguaci ritengono di avere forzato il codice del gioco e di averlo decrittato. “Daremo alla gente ciò che vuole” può affermarlo chi si senta sufficientemente certo di conoscere cosa vi sia nella mano destra di centinaia di milioni di donne e uomini, giovani e vecchi che tengono nella sinistra il loro pallone. Ma il presidente madrileno non è solo nel suo atto di illusoria hybris pallonara. Il resto della nomenclatura, con l’Uefa in testa e i grandi organi di stampa e le istituzioni politico sportive in coda, asse franco-tedesco incluso, sostiene di averlo capito ancora meglio. I tifosi, dal canto loro, sono certi di essere i padroni del gioco e dei suoi sentimenti, gli utenti e i fruitori, i clienti e i detentori dei significati ultimi. Tutti, in questo finale tragicomico, millantano il possesso delle chiavi della città sacra.

Nessuno che abbia chiesto a chi gioca. A chi calca il prato. Pare che a nessuno interessi sapere se Mbappé sia effettivamente terrorizzato dall’idea di non partecipare al campionato nazionale, o a Lewandowski procurerebbe fastidio il non comparire al prossimo mondiale. Forse ci ritroveremmo risposte sorprendenti che, magari, vogliamo evitare di scoprire.

Sono giorni che continuano a fornirvi i medesimi esempi atti a corroborare le solite idee debolucce. Se vince la Super Lega – si dice – perderemo per sempre la favola del Leicester vittorioso in Premier. Quando ero ragazzo mi dicevano lo stesso ma usavano l’esempio del Verona di Bagnoli. Sembra ci si dimentichi che nel Belpaese vince la stessa squadra da un decennio e che dopo il 1984 i gialloblù sono stati quasi più in B che in A. Ma fa molto chic confondere una vittoria al Superenalotto con la morale della favola che tutti possiamo vincere. Se la Super Lega non parte – continua a dirsi dall’altra sponda – il calcio muore, perché gli appassionati vogliono seguire Bayern-PSG dieci volte al mese. Lo sostengono con determinazione i più grandi manager di questo settore, vuoi che non lo sappiamo? Eppure, non mostrano un solo dato, una ricerca di marketing, un pezzo di carta che confermi che non sia solo una scommessa dettata dalla disperazione – l’unica evidenza -, ma che ci siano ragioni per pensare che possa essere effettivamente così.

C’e’ dunque da ritenere che il calcio sia sfuggito di mano talmente al di là di quanto immaginiamo che il tracollo economico, l’attuale apocalisse finanziaria dinanzi alla quale i più grandi club si ritrovano, finisce per essere quasi un effetto collaterale. È sfuggito il senso. Il calcio non spiega più nulla di condiviso, è invecchiato svestendo progressivamente i panni mitici e ce ne siamo accorti con effetto immediato quando la sola notizia di una potenziale scissione, domenica sera, ha fatto apparire la storia delle magliette nuove del Napoli e dei loro improbabili colori, sfoggiati durante la partita contro l’Inter, come cronache marziane di una irrilevanza quasi definitiva. Provincia ed impero sono ad anni luce di distanza e non è da escludere che sia stata questa improvvisa e terrificante presa di coscienza ad aver sollevato tantissimi addetti ai lavori in una selva di reprimenda.

Queste righe, si badi bene, non hanno nulla di apocalittico. Che uno sport ultracentenario stia esaurendo la sua carica irreale ed il proprio senso comunitario, che questa enorme bugia abbia perso mordente non è un male. È il naturale corso degli eventi che richiede una mutazione. È il mondo che, vivaddio, cambia. Fa solo sorridere che non si veda l’abisso esistente tra questi snodi temporali irrimediabilmente separati: la nascita di alcuni club – la cui storia originaria si addensa in un secolo e più fa -, il loro essere stati scelti da potenti finanziatori negli ultimi decenni per il loro promettente bacino d’utenza – petrolieri, oligarchi, gente non esattamente in una congiuntura d’oro -, l’esplosione di un nuovo audience globale completamente separato rispetto ai valori storici ed originari del club. Che Boris Johnson oggi difenda la Premier League per salvaguardare i bar di Londra e Manchester fa semplicemente sorridere, perché in quei club non c’è più una sterlina prodotta nel Regno Unito, e la maggioranza dei fan di queste squadre non parla neanche inglese. E meno male, c’è da aggiungere. D’altra parte, se a Napoli passa a stento l’idea del napolismo contrapposta alla napoletanità, perche’ si stenta a considerare tifoso uno che non mangia la sfogliatella gridando al miracolo, figuriamoci altrove.

La Super Lega probabilmente fallirà ma il tema sollevato continuerà a non avere una risposta. Il calcio è ancora un mito condiviso e, se sì, cosa racconta? Continueremo a leggere tirate retoriche nei fondi di prima pagina sul potere educativo dello sport, sulla tradizione centenaria, sul campanilismo necessario. Continueremo a vedere la comicità degli ultras che si allineano con la Uefa, dei decantatori di Ronaldo alla Juve che oggi gridano allo scandalo della morte dei campionati locali. Ma se ci illudiamo che i ragazzini comprino la maglia di Salah perché sanno qualcosa dell’origine di quei colori nel 1892 siamo fuori strada. Chi ha dieci anni oggi non sa chi siano Bagni e Maradona, figuriamoci la storia della middle class britannica. Se tutto ciò che sappiamo opporre alla lega dei ricchi è questa solfa della tradizione significa che siamo solo incartapecoriti e fissando la luce di un lampadario in cucina immaginiamo di avere il sole in casa, come tutti gli arteriosclerotici. Il mito del calcio è diventato anzitutto libero, più libero di quanto si creda da nazionalismi ed appartenenze e anche per questo, sia Agnelli che Cefarin, sia tifosi che giornalisti, faticano a venirne a capo.

Una verità storica rimarrà nel mezzo, sebbene trascurata. Il calcio, come ogni attività umana, è principalmente – se non esclusivamente – di chi lo paga. Se ne facciano tutti una ragione. Di chi ci mette del suo, di chi sborsa i quattrini. E se nel mondo continueranno a comprare più 10 di Messi che maglie del Leicester, quest’ultimo continuerà ad essere per ovvi motivi meno importante anche per il sistema stesso. E se a comprare maglie (originali) e partite (legalmente trasmesse) saranno più tifosi della Juventus che del Napoli, la prima avrà sempre un giusto vantaggio competitivo da riscuotere sul secondo. Questa non è una ingiustizia del mondo dei cattivi, è più banalmente la realtà che, sebbene non possa essere riscossa attraverso una partecipazione garantita ad un torneo, neppure può essere taciuta o ignorata. E’ una verità che i dirigenti dei club ignorano nella sua schiettezza quando si rifiutano di guardare ai dissesti provocati dalla loro incapacità, e che gran parte del resto del mondo pretende di non capire per una più banale comodità.

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