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Il podcast in cui Obama e Springsteen fanno a pezzi il sogno americano

In “Renegades” ci ricordano che l’America è costruita sulla razza e sulla sua discriminazione, sul sangue, sull’ingiustizia che regna pervicace

Il podcast in cui Obama e Springsteen fanno a pezzi il sogno americano

Forse a cause dalla analogia – poco intrigante- suggeritemi dal cervello, in cui Giuseppe Conte e Gino Paoli si ritrovano davanti ad un microfono a discutere, il podcast “Renegades” di Bruce Springsteen e Barack Obama, lanciato da Spotify, non aveva inizialmente attratto la mia attenzione. Come spesso mi accade, per fortuna, avevo torto. Se avete qualche decina di minuti liberi da dedicare a qualcosa che non sia il conteggio dei vaccinati nella vostra provincia di appartenenza, vale la pena usarli per seguire il duetto tra il rinnegato bianco e quello nero sui brandelli di un sogno americano che non solo ha smarrito le sue coordinate presenti ma che, a guardarlo senza il filtro di secoli di alibi, non è in realtà mai esistito, a detta di uno dei suoi principali cantori e di un politico simbolo di quell’idea storica.

Sulla non esistenza del passato che favoleggiamo – tutti, in quanti uomini; e tutti, in quanti uomini, sulla pelle e sulla vita di altri uomini – le due ore scarse di dialogo sono quasi impressionanti per asciuttezza, mancanza di retorica, direi equilibrate quasi da una forza analitica di un garbo difficilmente riscontrabili altrove. Il Boss e quello che possiamo probabilmente definire il presidente americano più cool di sempre svestono l’America panno dopo panno: è stato illusorio il melting pot, è stata una fantasia la storia dei padri fondatori, sono una bugia persino i famosi valori della middle class. L’America è costruita sulla razza e sulla sua discriminazione, sul sangue, sull’ingiustizia che regna pervicace e sulla lotta contro di essa che persevera, su un risarcimento nei confronti di milioni di donne e uomini schiavizzati che non è mai arrivato e non arriverà mai – perché, dice Obama, sarebbe giusto ma è semplicemente impossibile. “Diciamocelo chiaro: preferiamo dimenticare”. È il suggello di un declino o la presa di coscienza di una vita.

Ho pensato che ho vissuto a Berlino e Praga e in queste città ho conosciuto le piede d’inciampo. L’altro giorno ho sentito alla radio che ne esistono anche in Italia, a Roma, dove ho passato alcuni anni. E non ci avevo mai fatto caso. Lo ignoravo. I cattivi, nella mia testa, sono rimasti gli altri.

Nel podcast si parla della vergogna silenziosa di portare tutti un profondo e tacito senso di complicità verso il male compiuto.

Ricordo le parole del presidente tedesco lo scorso maggio, a 75 anni dalla fine dell’ultima guerra, riprendere una frase del rabbino Nachman: “Nessun cuore è intero quanto uno spezzato”. “Ed è per questo – aggiunse – che la Germania si può amare solo con un cuore spezzato”.

“Renegades” vale ogni minuto. Racconta che gli uomini e le donne veri possono amare la propria storia solo con un cuore spezzato. Con una parte di quel cuore devono provarne fastidio, dolore, schifo dove necessario. “Renegades” vale i 41 shots di Springsteen che parla di Fight the power dei Public Enemy e Anarchy in the UK dei Sex Pistols. Vale Obama parlare di A change is gonna come – “That song can make me cry” confessa. Maggie’s farm e poi A change is gonna come di Sam Cook. Li senti snocciolare e ti chiedi cosa saremmo oggi noi tutti, noi singolarmente e come umanità, in ogni punto del pianeta, senza la blue scale.

Soprattutto pensi che il passato è bene studiarlo e mai difenderlo.

Soprattutto pensi che non siamo chi pensiamo di essere.

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